È pronto a scommetterci su: «Se si va a votare con il proporzionale, il soggetto politico che molti di noi hanno nella testa e nel cuore prende il 20%. Glielo ripeto: il venti-per-cento. In Italia i moderati sono la maggioranza. Peccato che oggi siano rappresentati poco e male». Stefano Zamagni ha 77 anni, una fama consolidata (è un economista apprezzato in tutto il mondo), un incarico di prestigio (dal 27 marzo 2019 presiede la Pontificia accademia delle scienze sociali), uno spiccato sense of humour e un sogno nel cassetto: veder nascere quanto prima “qualcosa” che sia distinto e distante dalla Democrazia Cristiana («Ho scritto saggi in cui ho sostenuto che la Dc ha da tempo esaurito il suo corso storico »), in grado, comunque, di riprendere, attualizzandola, l’eredità migliore di personalità come Giuseppe Toniolo, don Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi e Aldo Moro. «È questa la motivazione che mi spinge a essere a Roma, il 3 e il 4 ottobre, per partecipare – con tanti altri desiderosi come me di superare l’asfissiante stallo di oggi – all’assemblea costituente di un partito che abbia chiare tre caratteristiche: sia di centro, completamente autonomo dalla destra e dalla sinistra e abbia una riconoscibile ispirazione cristiana ma sia aconfessionale, aperto a credenti e non».
A chi obietta che l’operazione sa di vecchio, Zaamagni risponde che così non è «né per quanto riguarda il metodo né per quanto riguarda il merito». Sfoglia a ritroso il calendario, il professore. «Nel novembre 2019 abbiamo pubblicato un Manifesto (www.politicainsieme.com) sottoscritto da centinaia di cittadini e da 27 tra gruppi, movimenti e associazioni varie. Da allora sono stati creati 14 gruppi tematici che hanno visto lavorare sodo (anche durante il lockdown, grazie alle nuove tecnologie) da 50 a 75 partecipanti ciascuno. Una tessitura diffusa, da Nord a Sud, compiuta in piena autonomia (detto chiaro e tondo: nessuna autorità religiosa ci ha indicato una rotta piuttosto che un’altra), trasversali e rappresentativi della complessa realtà italiana per cultura, censo e professioni. A Roma approda un’onda cresciuta dal basso. Non è un happening dove tutto è già deciso da un ristretto numero di persone e dove al massimo si può cambiare una virgola qua e là. Non è l’esaltazione di una pseudodemocrazia digitale che si nutre di piattaforme gestite sulla base di algoritmi confezionati da altri. Non è un’elitaria rete di club dove tutto si fa tranne che parlare di bene comune».
Quale programma? Quali priorità? «Cinque i temi forti. Lavoro e impresa, famiglia, scuola e università, pace, Europa, nella convinzione che le forze politiche oggi in campo sono inadeguate a dare ali a una strategia di trasformazione». Al di là dei titoli? «Le indico un paio di esempi, tra i tanti possibili. Diciamo sì all’Europa, ma proponendo la ridiscussione dei tre trattati fondamentali, quello economico di Maastricht (1992), quello istituzionale di Lisbona (2007), quello sui migranti di Dublino (2013) perché ormai obsoleti. Puntiamo a un modello di sviluppo economico basato sull’economia civile di mercato: né neoliberismo né neostatalismo postmarxista, ma un modello che accoglie in toto il principio di sussidiarietà e la cui mira è la prosperità inclusiva». A proposito di cattolici: si diceva di puntare tutto sulla formazione e poi che ciascuno era libero di impegnarsi dove meglio riteneva opportuno. «La diaspora teorizzata e vissuta è fallita. I cattolici avrebbero dovuto far “lievitare” le realtà di destra e di sinistra. E invece sono stati “devitalizzati”; perché, se non si raggiunge la soglia critica, il lievito non riesce a svolgere la sua funzione. A lei sta bene così? Non lo penso proprio».
(Stefano Zamagni con papa Francesco durante l'udienza concessa da Bergoglio ad una delegazione della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali il 2 maggio 2019. Foto Ansa)