«Non ho eroici furori. Solo desidero fondermi nella massa, in solidarietà con il popolo che senza averlo deciso combatte e soffre». Così scrive Teresio Olivelli nel 1941, allo zio materno don Rocco Invernizzi, prima di partire volontario per la Russia.
Era un alpino, Olivelli, sottotenente della divisone Tridentina, un alpino particolare, così tanto da essere prossimo alla beatificazione, che avverrà il 3 febbraio nel Palazzetto dello sport di Vigevano. Il postulatore di Olivelli è monsignor Paolo Rizzi, che dice: «C’è un’icona, simbolica memoria del martirologio cristiano nei lager nazisti: Teresio Olivelli, nel campo di concentramento di Flossenbürg, pur destinato a una situazione di più facile speranza, sceglie di andare con la maggioranza dei giovani a Hersbruck, dove la morte, invece, è quasi certa».
«Nell’atto di compiere questo gesto d’amore immenso, si rivolge a chi gli sta accanto e dice: “Non posso lasciarli soli, vado con loro”», prosegue monsignor Paolo Rizzi. «Teresio Olivelli è un eroe cristiano dei nostri tempi, espressione dell’opposizione cattolica alle idee neopagane del nazismo e può essere additato alla gioventù moderna come modello coerente di fede, speranza e carità, da lui professate con coraggio fino all’estremo sacrificio».
Comasco di Bellagio, nel 1941 Teresio Olivelli ha 25 anni. Nel 1938 si è laureato in Giurisprudenza, a Pavia. Da studente militava nell’Azione cattolica. Dopo la laurea è assistente alla cattedra di Diritto amministrativo dell’Università di Torino e aderisce al fascismo. Non per motivazioni ideologiche. Al contrario, è convinto che solo “dentro” il fascismo potrà concorrere a cristianizzare quella dottrina. L’entrata in guerra dell’Italia lo convince a prestare il servizio militare nonostante possa usufruire del rinvio. L’anno dopo, la Russia: Olivelli pensa che in guerra non debbano andare solo le classi sociali più umili.
RUSSIA, VICINO AI FERITI
Monsignor Rizzi sottolinea: «Al fronte si occupava dei suoi soldati, dividendo il cibo anche quando scarseggiava per sé. Li radunava di sera, li faceva pregare con il rosario; li spronava e li confortava». I più giovani erano scoraggiati, alcuni per darsi forza si ubriacavano, altri non facevano che imprecare, bestemmiare, maledire chi li aveva mandati là. «Lui rispondeva con parole e gesti di carità. Mancava il cappellano e allora si offrì anche per un aiuto religioso». Durante la ritirata Olivelli aiutò i feriti, che senza di lui non ce l’avrebbero fatta. Eloquente il giudizio di un alpino che gli deve la vita: «In guerra non fu eroe delle battaglie, ma della carità».
Dopo l’8 settembre 1943 Olivelli entra nella Resistenza cattolica bresciana. Monsignor Carlo Manziana, allora religioso dell’Oratorio della pace di Brescia, ricorda: «Con lui l’oggetto degli incontri non era come condurre la Resistenza, quanto piuttosto come formare i giovani alla libertà in senso cristiano». Teresio aiuta i resistenti delle Fiamme Verdi e scrive la preghiera Signore, facci liberi, conosciuta come Preghiera dei ribelli per amore. Con questa insegna ai partigiani cattolici che la prima libertà da conquistare è interiore, da chiedere al Signore affinché liberi il cuore da odio, vendetta, rancore, ritorsioni. Fonda il giornale Il Ribelle e scrive: «Siamo contro una cultura fratricida; la nostra rivolta non va contro questo o quell’uomo, è rivolta dello spirito. Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti».
NEI LAGER
Arrestato a Milano nel 1944, è trasferito nel campo di Fossoli, poi a Bolzano e da lì in Germania, a Flossenbürg, prima, e infine a Hersbruck, dove si prende cura dei più deboli e malati. I nazisti infieriscono, sottoponendolo a continue violenze: il suo atteggiamento religioso è un ostacolo alla politica d’annichilimento fisico e morale dei “nemici”. Muore il 17 gennaio 1945 in seguito alle percosse subite. Dice monsignor Rizzi: «La sua beatificazione arriva in un momento importante e appropriato, quando i cattolici italiani hanno bisogno di ritrovare le loro migliori radici anche sul versante della testimonianza nel sociale».
Il trasferimento a Hersbruck non lo impaurì, nonostante la fama tremenda di quel campo? «No», conferma monsignor Rizzi. «In quel luogo d’orrore ha vissuto di preghiera fino alla morte, nonostante fosse proibito manifestare sentimenti religiosi, e a ogni suo compagno ha offerto una parola di coraggio. Il suo intento era portare ai sofferenti la consolazione del Signore, permettere alla carità la vittoria anche in un ambiente terribile come il lager. Ma i persecutori nazisti rifiutavano e odiavano quella carità, espressione della sua fede che sfidava la loro violenza. Il prossimo beato si è fatto compagno di strada dei suoi fratelli più fragili condividendone le fatiche della vita. Un difensore dei deboli, nella logica del farsi prossimo a imitazione di Gesù, il buon Samaritano».