Come capita spesso nella vita, “per una serie di fortunate coincidenze” (Provvidenza?) ho avuto la fortuna – o meglio, “l’esperienza” – di andare al cinema a vedere Sound of Freedom, film evento di questi ultimi mesi a livello internazionale e di questi ultimi giorni in Italia. Un raro caso in cui il passaparola fa emergere anche nei circuiti dei multisala, sempre uguali a se stessi, un racconto diverso, intenso, originale, che sfida la coscienza, al punto che, quando esci dalla sala hai lo sguardo un po’ basso, e ti domandi: “Davvero non posso fare niente, io?”. Condivido quindi alcune mie riflessioni, “strettamente personali”, su alcuni degli aspetti che mi hanno più colpito, credo però interessanti anche per chi vorrà leggere questo breve testo.
In primo luogo il tema: al centro della vicenda c’è la tremenda situazione mondiale dei bambini rapiti, venduti e violentati nella tratta di minori: vera e propria schiavitù, come ricordano i titoli finali, che segnalano che “oggi nel mondo il numero di schiavi è superiore a quando la schiavitù era legale”. Bambini e bambine, di 6, 8, 12 anni, strappati con l’inganno alle proprie famiglie e portati anche a migliaia di chilometri di distanza, nelle mani degli “orchi”: sfruttatori, rapitori e pedofili, spesso descritti come “normali” uomini o donne, magari con altri affetti e relazioni “normali”, ma anche crudeli carnefici dell’innocenza di tanti. Un giro d’affari di 150 miliardi di dollari all’anno, tanto per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno.
In secondo luogo la scelta narrativa, doverosa ma per niente scontata, di non mostrare mai alcun atto violento vero e proprio ai danni dei bambini. Una scelta di pudore, il rifiuto di una narrazione “pornografica”, l’intenzione di non esporre ulteriormente situazioni già così pesantemente violate. Chi ha visto il film capisce: non mostrare la violenza non rende il film meno duro, anzi, per certi versi ti costringe a pensare a “cosa succede quando tu non vedi”… Mi ha colpito, questa capacità narrativa di tenere alta la tensione e l’empatia, senza la facile scorciatoia dell’esposizione della violenza. Una conferma che si tratta di una produzione cinematografica di altissimo livello.
In terzo luogo la centralità dell’impegno personale, testimoniata (nel film ma anche nei titoli finali) dall’attore protagonista, quel Jim Caviezel già noto per il ruolo di Gesù nel Passion di Mel Gibson. Nella storia (e nella storia vera, in effetti), l’agente Tim Ballard non molla mai: dopo aver arrestato 288 pedofili sul suolo americano (ma senza aver mai visto o salvato un bambino, come gli ricorda un collega che invece getta la spugna), giunge per lui il momento di cercare un bambino concreto (anzi, una coppia di fratelli), e su questo si impegnerà, tra mille difficoltà, senza mai arrendersi, mettendo a rischio la propria carriera, la propria vita familiare, la sua stessa vita. Questa urgenza di mettere in salvo questi bambini lo porterà in Colombia, nei contesti più rischiosi, fingendosi complice di questo squallido e perverso commercio, davanti ad ostacoli sempre più complessi. Ma sempre lui andrà avanti, anche quando alcuni suoi compagni di viaggio lo devono lasciare. È troppo grande la responsabilità che si è assunto, non ci si può fermare, neanche se si rischia la vita. Jim Caviezel ci mette la faccia quando impersona Tim Ballard, ma anche alla fine del film, dopo i titoli di coda, quando chiede sostegno al pubblico per agevolare la distribuzione del film, anche attraverso un contributo economico (un QRCode “per comprare i biglietti a chi non può permetterseli”).
Ma sono ancora più impressionanti le scene finali, in cui al volto dell’attore si sovrappone il volto del vero Tim Ballard, che ha davvero fatto molte delle imprese del film, al punto che si rivedono le stesse scene del film con le riprese delle azioni reali, girate “nella vita vera”. Di fatto è uno dei messaggi più forti del film: “adesso lo sai, non è solo un film. Non puoi voltare la faccia da un’altra parte”.
Un quarto aspetto del film, legato anche alla sua tormentata storia nella distribuzione, rimanda ad una sensazione che mi ha colpito appena conclusa la proiezione: una “laicità cristallina”, che caratterizza l’intera narrazione. Questa storia interpella, denuncia e sfida i governi, gli interessi economici, i circuiti criminali, i “clienti” che comprano e usano i bambini come se fossero pupazzi inanimati – è proprio una questione di bene comune, non viene segnata da ispirazioni religiose, da nemici dichiarati, da posizioni eticamente schierate. Ci si limita a mostrare lo scempio che viene fatto dei bambini in giro per il mondo, lasciando aperta la domanda: “Come è possibile tollerare tutto ciò?”
Eppure il film è stato ostacolato, bloccato, criticato perché fondamentalista, trumpiano, complottista. Prodotto con la 20th Century Fox nel 2019, non è uscito perché la Disney nel frattempo ha comprato la Twenty, e lo ha bloccato per cinque anni. La Angel Studios lo ha poi acquistato e distribuito (in Italia il film è distribuito da Dominus Production), con una innovativa strategia on line di “acquista il biglietto per altri”, che ha contribuito in modo rilevante al successo nelle sale. In effetti il film è espressione di un’area culturale precisa (basti pensare alle vicissitudini di Mel Gibson dopo the Passion), e la sua diffusione si è basata su un passaparola ben identificabile. Tuttavia il messaggio del film è puro, “laico”. Forse l’unica espressione “ispirata alla fede” è il motivo per cui Ballard/Caviezel si mettono in movimento: perché “i figli di Dio non sono in vendita”. Che poi, a mio parere, dovrebbe essere il vero titolo del film: ma il regista ha preferito “il suono della libertà”, ridando voce – in due o tre scene tra le più poetiche del film - a bambini a cui veniva tolta non solo la voce, ma anche la libertà, l’innocenza e persino il nome. Ma questa frase non basterebbe per giustificare una ideologica ostilità a questo splendido film: perché anche se si volesse negare la presenza o la pertinenza di Dio Padre o di qualsiasi orizzonte trascendente, basterebbe dire: “i bambini non sono in vendita”!
Insomma: per me, personalmente: sono contento di essere andato a vedere questo film, anche se ne sono uscito scombussolato. Va visto assolutamente, perché è uno dei pochi film che “mette in movimento” cuore, coscienza e anima. E mi sembrano incomprensibili le pretestuose polemiche di chi vede solo un retropensiero strumentale, rifiutandosi di ascoltare le grida silenziose di tanti bambini sfruttati, a cui questo film riesce a dare voce, in un “suono della libertà” (Sound of Freedom) che restituisce speranza, dopo tanto orrore.