PHOTO


Un buco nel terreno, decine e decine di metri stretti e bui, ma anche un buco nella memoria, e nei libri di storia, profondo sessant’anni. Ci prova a colmarlo un film per la Tv prodotto da Raifiction, che restituisce alla luce di un dibattito sicuramente acceso, ma ci si augura sereno, la tragedia colpevolmente rimossa delle foibe, con le sue migliaia di vittime (venti, trentamila: impossibile quantificarle con precisione) cancellate sul finire della guerra – tra l’autunno del 1943 e la primavera-estate del ’45 – dalla sanguinosa repressione del regime di Tito. Uomini, donne, bambini d’Istria accusati di connivenza con il fascismo e la sua politica di discriminazione etnica nei confronti degli jugoslavi, e letteralmente inghiottiti da quelle gole di terra e fango caratteristiche delle zone carsiche.
In questa cornice dolorosa si dipana la trama di Il cuore nel pozzo, film “difficile”, come s’intuisce, per le inevitabili polemiche e speculazioni politiche, alcune delle quali innescate già durante la lavorazione in Montenegro. «Fiction che offende gli sloveni», la bollò il ministro degli Esteri Ivo Vajgi, «vendetta cinematografica di Silvio Berlusconi su Tito», rincarò la dose il giornale di Belgrado Svedok, operazione «destinata a complicare i rapporti tra Italia e Slovenia», profetizzò il croato Globus: accuse che il regista Alberto Negrin serenamente ha rispedito al mittente, perché «per uno come me, che racconta soltanto storie destinate a emozionare e a far riflettere, non ci sono riserve né condizionamenti, bensì il dovere di raccontare una tragedia dimenticata. E comunque questo non è un film di ricostruzione storica con in primo piano degli scontri politici e ideologici, ma un racconto epico incentrato sul dramma umano di persone normali, in una fra le più tragiche fasi del ’900».


E infatti la vicenda, scritta da Massimo e Simone De Rita con la consulenza di Giuseppe Sabbatucci, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma («nel racconto bisognava tener presente che non tutto il male era dalla parte degli jugoslavi e il bene da quella degli italiani», sottolinea a riprova dell’onestà intellettuale dell’opera), ruota intorno alla figura di un prete, l’umanissimo don Bruno magistralmente interpretato da Leo Gullotta, in fuga nelle campagne istriane con un gruppo di bambini scampati all’incendio del loro oratorio. A dare man forte all’eroico sacerdote e ai suoi protetti, due belle figure di giovani, il reduce alpino Ettore (Beppe Fiorello) e la sua innamorata Anja (Antonia Lìskova), cui s’affiancano – nel cast ricco di talenti, italiani e non – Sonia Aquino, Mia Benedetta, Cesare Bocci, Marcello Mazzarella e Dragan Bjelogrlic, popolare attore serbo qui nei panni di uno spietato ufficiale titino.
Gullotta, questa di don Bruno non è la prima tonaca che indossa, ma forse la “stoffa” la rende diverso...
«È vero, sono già stato un prete di frontiera in due lavori televisivi (Dio ci ha creato gratis e Una madre inutile), nonché vescovo illuminato del ’700 nel film di Christian De Sica, Tre. Ma confesso che entrare in questa storia, raccontata dalla penna e dagli occhi di un bambino, mi ha fatto sentire un po’ più utile con il mio mestiere d’attore; sensazione provata in passato altre due volte (penso a Vajont di Renzo Martinelli e a Un uomo per bene di Maurizio Zaccaro, dov’ero il perfido che “inventò” il caso Tortora) e che mi ha tenuto compagnia, rafforzandosi, durante tutta la lavorazione. Perché anche se don Bruno è un personaggio che appartiene alla drammaturgia, attraversa quel momento storico legato alla tragedia delle foibe che posso solo definire – mancandomi altre parole – di immane confusione sociale e politica, una bolla sospesa in cui ci fu spazio unicamente per la follia. Storia doppiamente atroce perché poco nota anche a chi ha voluto sapere, ben poco trovando sull’argomento. Non entro in vuote polemiche politiche che lasciano il tempo che trovano, ma ci tengo a dire che abbiamo il dovere della memoria: un segno di rispetto, di civiltà, di ammenda, una lezione che molto ci dovrebbe insegnare e invece...».
Riflessioni molto amare: sono entrate nella costruzione del personaggio?
«Mi sono messo nei panni, prima ancora che di un rappresentante della Chiesa con la responsabilità di un orfanotrofio, di un uomo anche lui confuso e col bisogno di capire il senso di quanto sta accadendo, mache per l’abito che indossa deve offrire risposte e una chiave di spiegazione a chi gli sta intorno. Non solo le piccole, meravigliose vite che si porta dietro nella fuga, dura e sofferta, ma anche l’alpino che incontra per via, ancora più smarrito e solo e bisognoso di lui; ecco perché, prima d’ogni altra cosa, ho cercato di capire un uomo che deve dare amore, perché tutti in questa storia ne hanno un disperato bisogno».
Anche il crudele capo partigiano che dà la caccia a don Bruno per strappargli il figlioletto nato da un atto di violenza su un’italiana?
«Sì, non ho dubbi: quella di Novak è la crisi degli uomini abbrutiti dalla guerra, la più terribile delle tragedie. Lui e io rappresentiamo due opposte divise, una militare e l’altra spirituale, inserite in un continuo, doloroso per entrambi, orto del Getsemani».
Dove don Bruno, nonostante tutto, è sempre pronto a donare un sorriso: un po’ come Leo, non è così?
«È mio da sempre, questo atteggiamento di solare apertura agli altri. Sono l’ultimo di sei figli di una famiglia di operai – papà era pasticcere – nato da un festeggiamento di fine guerra. Nel quartiere popolare di Catania dove vivevamo, mio padre ci ha insegnato tre cose: sorridere, aver rispetto per chi ci sta accanto, far rispettare la nostra dignità. E poi una quarta, fondamentale: sdrammatizzare le brutture che ci piombano addosso. “Rìdici su”, mi diceva, “e avanti un altro”. Ecco, se oggi sono un uomo sereno che vede la vita a colori, lo devo a lui, e a quegli anni lontani».
Luisa Sandrone





