Per squallide ragioni anagrafiche sono accompagnato da pochissimi che, a tre quarti di secolo dalla tragedia di Superga, come me siano stati tifosi “dal vivo” di quel Toro, amanti dei gioco del calcio, cercatori onesti di agganci validi per storicizzare al massimo la loro altrimenti plebea vita, e infine giornalisti sportivi. A 89 anni ormai vicini mi cercano, in questi giorni, per chiedermi di parlare di quei giocatori, degli Invincibili, e mi dicono di ricerche vane di altre persone che dovevano esserci e non ci sono più, spesso portati via da quel Covid che ho fatto tre volte uscendone vivo, abitatissimo dentro da cose non mie (valvole, stent, punti) ma vivo.
Vado ora a scrivere cose che in parte ho già scritto per Tuttosport e La Stampa, in parte minore per il giornale, Famiglia Cristiana, al quale sono stato legato da sessant’anni di collaborazione stretta, varia, forte, mai però sfociata in un articolo come questo.
Dunque: mi mancavano, quel giorno là, quel 4 maggio 1949 in una Torino tutta nuvoloni e pioggia, quattro mesi e mezzo ai 14 anni, a scuola (adorati gli studi classici) ero un ragazzino precoce, un po’ secchione. Facevo tanto sport, anche giocando a calcio per strada, studiavo soprattutto la sera, anche la notte, per non disturbare con la luce dormivo in cucina su una branda e comunque venivo additato ai miei due fratellini minori come esempio di bravo figliolo. Era in pieno corso il mio patto con papà: se non avessi mai saltato un giorno di scuola – l’edificio enorme di aule e spazi era ad appena cento metri dal portone di casa mia - non avrei perso nessuna delle partite giocate dal Grande Torino nel mitico stadio di casa, in via Filadelfia: patto rispettato. Papà era molto tifoso, posso dire che mi ha costretto a tifare Toro? Sì, non potevo sfuggirgli, ma poi tutta una vita mi ha fatto capire che comunque mai e poi mai avrei tifato Juventus Perché? Perché sì, non sono riuscito a spiegarmelo. L’ho detto più volte anche a Giampiero Boniperti, forse l’uomo più emblematico della Juventus e ciononostante (o proprio per questo) mio amico fraterno, sino a chiamare Giampaolo, pensando a me, il primogenito dei suoi tre figli.
La squadra degli invincibili
Non infliggo qui a nessuno l’importanza di quella squadra che interpretava la rinascita di tutto il Paese, lo hanno fatto gli storici. Non rievoco il viaggio aereo che riportava a casa la squadra dalla partita amichevole di Lisbona, lo schianto che qualcuno cerca proprio in questi giorni di ammantare persino di misteri. Voglio invece ancorare il Torino, il mio Toro, a momenti speciali, tutti miei, miei e basta.
Il primo fu quando mio padre mi diede l’annuncio della fine. Ero a letto, in cucina, con qualche lineetta di febbre, lo vidi piangere, prima e ultima volta. Il secondo momento tutto mio il giorno dei funerali, quando mi sentii bunkerizzato dal mio dolore: ero nell’alloggio di un parente, c’era la vista sul corteo, mi fasciai la mano con una tovaglia e con un pugno ruppi finalmente quel vetro mosaico, a fare da porta, che non mi piaceva, troppe le raccomandazioni a non romperlo, lo distrussi sapendo che sarebbe parso gesto di mia comprensibile rabbia. Poi ci furono tanti altri passaggi speciali: a un certo punto il Torino che ritornava allo scudetto, anno 1976, era anche la squadra della città in cui il direttore del quotidiani sportivo ero io, con tutte le implicazioni deontologiche del caso.
Tutto e tutti però spariscono di fronte alla mia storia con Mazzola, con capitan Valentino. Io lo sapevo grandissimo giocatore capace di ribaltare a pro del Toro qualsiasi risultato, ne avevo le prove. Ma quel Mazzola di quel giorno fu esclusivo e pesantemente mio. Era il giorno primo della mia vita in cui i genitori mi avevano lasciato andare al cinema con un solo compagno di scuola, Giorgio alto e forte, scegliemmo Chiamate Nord 777, poliziesco Usa, nel cinema Augustus che stava nella piazzetta Cln dove comincia Profondo Rosso, forse il capolavoro di Dario Argento, con il tizio che attraversa la strada davanti alle fontane monumento di Po e Dora.
Il film cominciò, ricordo i titoli di testa sulle immagini di una donna che puliva con uno strofinaccio le scale di un grande palazzo, ricordo che guardai chi era appena arrivato per sedersi alla mia destra, era Mazzola, solo e soletto. Per tutto il primo tempo (nell’intervallo si comprava il gelato) lo fissai, nulla vidi del film, e quando ci tornò la luce lui mi disse: “Ragazzino, se nel secondo tempo guardi anche il film è meglio”.
Volevo morire per averlo trapanato e sicuramente disturbato col mio sguardo. Chiesi a Giorgio di uscire, gli inventai un mal di pancia repente. Di quel mio Mazzola ho conosciuto bene Sandro figlio lui pure campione di calcio e benino suo fratello Ferruccio, mai ai due ho saputo voluto potuto raccontare di quell’incontro. E non chiedetemi perché.