Nella foto: la forca di Auschwitz (Foto A. Stella)
Quando si torna da un viaggio la domanda più frequente è: "È stato bello?”. A quel punto chi ha viaggiato risponde secondo la propria soggettività, un fattore che tuttavia sparisce se si è di ritorno dalla visita ai campi di concentramento e di sterminio tra Auschwitz 1 e Birkenau. Perchè no, andare ad Auschwitz non è e non potrà mai essere bello. Forse è solo semplicemente doveroso, un’esperienza da fare per vedere con i propri occhi ciò che è stato e soprattutto per non dimenticare la più brutta pagina della storia dell’umanità. La Storia con la “S” maiuscola della Seconda Guerra Mondiale è di fatto iniziata nel 1940 e finita il 27 gennaio 1945, in quella grande landa desolata situata nella Polonia Occidentale. E a ottant’anni dal suo epilogo, in un periodo storico attuale dove la pace non sembra essere una priorità, il ricordo assume un valore fondamentale.
Auschwitz 1, una metodica macchina della morte
L’inverno polacco è rigido, il termometro segna tre gradi e il sole fa capolino dalle nuvole grigie solo in rari momenti. Nei giorni precedenti ha nevicato molto e questo elemento contribuisce a rendere ancor più particolare la visita ad Auschwitz 1 - il primo complesso del campo di concentramento costruito in Polonia e operativo fin dal 1940 - a cui si accede solo dopo lunghi controlli. Il viaggio non inizia varcando uno dei celebri cancelli del lager. Prima c’è un lungo corridoio, circondato da alti muri, a cielo aperto da percorrere. Circa tre minuti di cammino durante i quali, nel silenzio più assoluto, risuona solo una voce. Bassa, quasi strascicata, ma incessante. Elenca i nomi di alcune delle numerose persone che hanno perso la vita in quel luogo, portando il visitatore a focalizzarsi subito sulla portata dello sterminio perpetrato. Pochi passi ed ecco che si raggiunge il tristemente noto cancello di entrata, su cui dominano tre parole tedesche: Arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. La beffarda frase incisa per volontà del maggiore delle SS, Rudolf Hoss, comandante di Auschwitz e Birkenau. Varcato l’ingresso l’impatto è immediato. Tante piccole strutture di mattoni poste rigorosamente in fila, in mezzo a viali alberati, come le villette a schiera di un piccolo paese di provincia. E invece in quelle baracche sono state compiute le peggiori atrocità contro milioni di esseri umani. Ebrei, soprattutto dal 1942 - circa un milione e mezzo di morti ad Auschwitz a causa del progetto Soluzione finale - ma non solo. Inizialmente i campi hanno “ospitato” migliaia di dissidenti politici polacchi e in seguito anche russi. Senza dimenticare la strage silenziosa e ignorata di 21mila Sinti e Rom.
Le scarpe dei deportati (Foto: A. Stella)
Sulla porta della prima stanza visitata, che ospita la mostra fotografica, campeggia una massima del filosofo spagnolo George Santayana: «Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo». Un monito quanto mai attuale e inascoltato. L’esposizione è minimale, cruda e spazza via ogni tentativo di immaginazione positiva. Intere sale - sulle cui pareti sono appese le foto dei prigionieri scattate dai nazisti stessi e ritrovate dai russi dopo la liberazione - raccolgono migliaia di reperti appartenuti ai deportati. Valigie con sopra nomi e date di nascita, protesi, occhiali, spazzole, corredi di neonati, scarpe e pentole. Oggetti requisiti ai loro proprietari nel momento in cui dell’arrivo al campo, con la promessa falsa di essere restituiti dopo la selezione e la cosiddetta “doccia” nelle camere a gas. In un continuo dentro e fuori dalle baracche si arriva nelle stanze finali dell’esposizione che contengono due dei simboli dell’Olocausto. I barattoli del gas "Zyklon B”. Mucchi di apparentemente innocui barattoli, al cui interno si celava l’arma letale. E poi i capelli. Ormai ingrigiti dal tempo. Appartenuti e tagliati a tutti coloro che entravano nel campo e poi conservati. A fine guerra sono stati ritrovati 7.000 chilogrammi di capelli umani. 7.000 chili di capelli, uno dei tratti distintivi della personalità fisica di un essere umano, utilizzati dai tedeschi per costruire traliccio.
Se l’esposizione del blocco 5 dà il primo pesante assaggio dell’annullamento fisico e psicologico di un uomo, il blocco 7, l’11 e i sotterranei raccontano il passaggio rapido verso la morte. Si parte dai dormitori, stanze con capienza massima di 50 prigionieri e che invece ne contenevano 200. Una serie di letti a castello con due o tre piani, fatti di assi di legno e ricoperti da paglia quando si era fortunati. Le coperte, stracci lisi, tagliati e non adatti alle temperature invernali, rappresentavano quasi un lusso assoluto. In un angoscioso “crescendo rossiniano” si passa al blocco 11, il blocco della morte. Sui muri del corridoio che passa tra le celle - quelle poste in superficie e usate come alloggi dei deportati in attesa di processo sommario - sono appese altre foto. Volti singoli. Con i capelli tagliati e lo sguardo tra l’assente e il sofferente. Uomini, donne, bambini e anziani. Tutti morti. O di stenti e malattie o fucilati contro un muro grigio, situato nel cortile antistante. Il loro sguardo sembra quasi condannare chi passa nel corridoio. Soprattutto in quel momento si prova a immedesimarsi nella loro condizione (guardando soprattutto i volti di ragazzi che rispetto a chi scrive sono più giovani o al massimo coetanei, ndr), ma è quasi impossibile. I visitatori di questo luogo in inverno vestono capi di abbigliamento pesanti e confortevoli, mentre all’epoca i prigionieri indossavano solo tuniche leggere. Ciò impedisce il minimo confronto. La discesa nei sotterranei infine apre le porte dell’inferno. Piccole celle di 3x3 metri, utilizzate per la “pulizia dei bunker”. Qui i deportati subivano la fine peggiore. Nella cella cella 18 -in cui è stato rinchiuso anche il sacerdote polacco Maksymilian Kolbe, che sacrificò la sua vita per salvare quella di un altro internato- si era destinati a morire di fame. Nella cella 20 invece si perdeva la vita per mancanza d’aria. Una volta scesi nei sotterranei difficilmente poi si risaliva.
Il giro dentro Auschwitz 1 termina in un punto simbolico. Nel giro di pochi metri si trovano una camera a gas, una forca e dietro al filo spinato, in quello che era considerato il “mondo libero”, una villa con il tetto rosso. La villa dove abitava con la famiglia Rudolf Hoss, il già citato comandante dei Lager polacchi. La camera a gas - l’unica rimasta intatta tra Auschwitz e Birkenau (tutte le altre sono state distrutte dai tedeschi poco prima della liberazione dei campi, in modo da cancellare inutilmente le tracce degli orrori) - dove veniva iniettato il gas Zyklon B scelto proprio dallo stesso Hoss per velocizzare le uccisioni. E il passaggio nei suoi spazi angusti e bui, tra forni in bella mostra e botole sul tetto, è l’ultimo colpo all’animo durante la visita del campo. E infine la forca, composta da tre scalini e da tre assi di legno, costruita e utilizzata il 16 aprile 1947 solo per impiccare lo stesso comandante tedesco, condannato a morte.
Nella foto: i binari del treno a Birkenau (Foto A. Stella)
Birkenau, tra macerie incancellabili e strade infinite
A soli tre chilometri da Auschwitz 1 ecco Birkenau. Da un campo di concentramento a uno di sterminio. Il più grande campo di sterminio mai costruito, con una capienza massima di 100.000 prigionieri. La visita qui è molto diversa e ben più corta. Se Auschwitz è il luogo dove si può vedere concretamento le tracce dell’orrore nazista, Birkenau è il posto dove riflettere, mentre si percorrono lunghissimi viali costellati dalle macerie di camere a gas e crematori e ricoperte di neve. Una traccia di morte destinata però a rimanere incancellabile. Ciò che invece resiste al passare del tempo sono i binari dello scalo ferroviario, su cui arrivavano i treni carichi di deportati. Al termine delle rotaie, sempre circondato da altre macerie, si trova il Monumento Internazionale in Memoria alle Vittime del Nazifascizmo. Un simbolo terribilmente perfetto di quello che rappresentava la fine di quel viaggio in treno.
L’ultima tappa del giro coincide con l’ingresso in una delle poche baracche rimaste in piedi. Tetto basso con infiltrazioni, terreno fangoso senza assi e nessuna fonte di luce artificiale. Una riproduzione fedele dell’ambiente dove venivano ammassati i prigionieri costretti, come ad Auschwitz 1, a dormire su letti a castello fatti con assi di legno. Capienza massima: 100 persone. Numero di presenti effettivi: 400 persone. Obbligate a giacere una sopra l'altra, in quelle che originariamente erano stalle da campo per 52 cavalli.
Uscendo da Birkenau, sembra di abbandonare il centro del male del mondo. Pochi metri dopo, girato un angolo nella strada di ritorno verso Cracovia, ecco un centro commerciale e un Mc Donald’s, simboli del consumismo e della vita occidentale dei tempi odierni. L’umanità è andata oltre la Seconda Guerra Mondiale, oltre Auschwitz e lo sterminio degli ebrei. Ma i due campi sono lì, nella loro triste immensità, a ricordare sempre a tutti il valore della memoria.