Il suono dei binari accompagna da sempre la sua vita.

Ogni giorno Emanuele Di Porto, 94 anni compiuti da poco, prende l’8 che taglia in due Trastevere e scende alla fermata del Ghetto ebraico, il quartiere dove si sente a casa. Le vie che brulicano di vita, l’attività festosa dei commercianti e gli scorci incantevoli, ci accompagnano lungo la breve passeggiata che dalla sua panchina ci conduce verso i luoghi della memoria. Davanti al portone di Via Reginella, dove ha abitato fino a pochi mesi fa, le pietre d’inciampo riportano i nomi dei deportati ad Auschwitz. Fra questi c’è Virginia Piazza, la madre di Emanuele. Lui ci passa accanto ogni giorno, senza smettere di guardarla, poi alza lo sguardo e dice: «Da quella finestra vidi mia madre mentre i tedeschi la portavano via».

Era l’alba del 16 ottobre 1943. La madre di Emanuele era uscita di casa per avvertire il marito che nel Ghetto erano arrivati i tedeschi. «Papà vendeva souvenir alla stazione Termini. Si alzava nel cuore della notte per lavorare, anche durante la guerra. Mamma si era vestita in fretta, convinta che cercassero solo gli uomini. Prima di uscire si è raccomandata con noi figli che non ci muovessimo da casa», racconta Di Porto.

Dopo qualche ora, Emanuele si affacciò e vide che i nazisti avevano fatto salire la madre su un camion, parcheggiato in piazza Mattei. «Lei mi ha visto e mi ha fatto segno di entrare in casa, ma io sono corso giù perché volevo salvarla».
Un soldato lo afferrò e lo spinse sul camion ma Virginia, con un gesto disperato, riuscì a farlo scendere. Emanuele Di Porto dice sempre che sua madre l’ha messo al mondo due volte: «Quando mi ha partorito e quando mi ha spinto giù da quel camion».
Virginia non fece più ritorno a casa. Emanuele, appena dodicenne, vagò da solo in una città sotto assedio. Camminò per ore, sotto la pioggia, per allontanarsi dal Ghetto. «Camminavo piano, senza correre. Non volevo dare nell’occhio. Ogni camion che incontravo portava via persone che conoscevo. Era tutto finito in poche ore. I tedeschi avevano chiesto alla comunità ebraica cinquanta chili d’oro. Donammo fedi, catenine, bracciali. C’era povertà ma riuscimmo a raccogliere e dare loro ciò che chiedevano. Eravamo convinti che a quel punto ci avrebbero lasciati in pace».

Arrivato in piazza Monte Savello, si fermò davanti al capolinea della circolare e salì sul primo tram che passò. «Dissi al bigliettaio Guarda che so’ ebreo. Mi stanno cercando i tedeschi. Mi fece cenno di salire e mi misi vicino a lui. Mi diede da mangiare la sua merenda, uno sfilatino con la frittata. Non lo dimenticherò mai. Quell’uomo mi ha salvato la vita con un pezzo di pane e mantenendo un segreto».



Quel tram diventò la sua casa, per due giorni e due notti. Tra i sedili e le ruote che giravano, al riparo dallo sguardo dei soldati e accudito dai tranvieri che dicevano: «Badate al ragazzino». Emanuele diventava adulto. E la misericordia fatta di gesti piccoli e di un’umanità sorprendente e inaspettata, stemperarono il terrore di quei giorni.

La terza mattina, un amico di famiglia lo riconobbe e lo riportò a casa, dove il padre non lo aspettava più credendolo morto. «Papà piangeva, non riusciva a parlare. L’ho visto cadere in depressione e mi sono arrotolato le maniche per farlo rialzare. Facevo quello che faceva lui: vendevo in strada, tutto quello che trovavo. Pettini, portafogli, elastici. I tedeschi compravano, a volte pagavano con il pane. Una volta, uno di loro mi diede cinquecento lire: pensavo si fosse sbagliato. Ma poi mi invitò a prendere una cioccolata. Era grande e grosso, avevo paura, ma capii che mi voleva solo ringraziare, oppure conosceva la mia storia e volle risarcirmi in qualche modo». La storia di Emanuele è raccontata in due libri per ragazzi: Un tram per la vita di Tea Ranno (Il battello a vapore) e Il bambino del tram di Isabella Labate (Orecchio acerbo).

Dopo la guerra arrivarono i tempi buoni. Imparò l’inglese, un po’ di giapponese e iniziò a fare la guida turistica. Frequentò la Via Veneto della Dolce Vita quando era la Hollywood italiana. Gli attori più importanti volevano conoscerlo e la vita, ancora una volta, scacciò l’ombra lunga della morte.

Oggi, ripete queste parole nelle scuole, ai ragazzi, nei teatri, nelle comunità, con calma, senza enfasi, ma con quella forza tranquilla che viene solo da chi ha vissuto un dramma e ha scelto l’amore.

Mentre concludiamo la passeggiata tra le strade del Ghetto, Emanuele osserva i turisti e la gente che si ferma davanti alle pietre d’inciampo. Qualcuno lo riconosce e lo saluta: «Domani digiuni Emanuè?». Risponde di sì, perché le tradizioni sono importanti e anche perché pe’ campà tanto e bene bisogna magnà poco.

Ci congediamo alla fermata dell’8, mentre il tram è in arrivo. Lo stridio delle ruote sui binari interrompe le nostre parole. Emanuele si volta verso di me, il viso illuminato dal sole tenue del pomeriggio. Sale a bordo e il tram riparte piano riportandolo, come sempre, a casa.