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Va di moda dividere il mondo contemporaneo in due schiere: i “nativi digitali”, nati dagli anni Novanta in qua, e gli “immigrati digitali”, ovvero gli adulti nati prima. Il senso della divisione – coniata dall’americano Marc Prensky nel 2001 e da allora divenuta un luogo comune – sta nell’attribuire agli “immigrati digitali” una insostenibile fatica a padroneggiare tecnologie e linguaggi in cui i “nativi”, invece, si muovono come a casa loro. Di qui un ineluttabile abisso, un “divario digitale” tra generazioni che non si capiscono più.
Non per niente gli ex bambini degli anni Ottanta sono tuttora acquirenti abituali di videogiochi (l’età media di chi li usa in Italia s’aggira sui 30 anni) e, certamente, sono loro che hanno introdotto i propri figli a questo mondo. Anche per questo una famiglia su due, oggi, ha in casa almeno una console.
Quindi, papà e mamme, non accettate di sentirvi escludere da un mondo che è legittimamente vostro. Quella di essere “immigrati digitali”, se deve equivalere a sentirsi incapaci (o, peggio, giustificati) rispetto al capire che cosa fanno i figli davanti agli schermi, è una panzana bella e buona.
Detto questo, i “nativi digitali” esistono ed è un discorso molto serio, di cui riparleremo. Seriamente.
Adottare alla lettera questa distinzione è ingenuo e soprattutto inesatto proprio per quel che riguarda gli “immigrati digitali”. Tanto per cominciare, praticamente tutte le innovazioni dell’era digitale si devono proprio a loro, agli adulti che quest’era l’hanno inaugurata e la fanno crescere. In secondo luogo, proprio il terreno dei videogiochi, di cui qui ci occupiamo, sbaraglia qualsiasi rigida barriera visto che, anche in Italia, questo mondo esiste e prospera almeno dagli anni Settanta: i papà dei “nativi digitali” sono quei bambini e ragazzi che da Pong (1972) a Space Invaders (1978), da PacMac (1980) a Monkey Island (1990) e a Wolfenstein 3d (1992), hanno fatto propria la cultura dell’interattività mentre l’internet e il web erano ancora di là da venire. Questo video fa vedere come, compatibilmente con le qualità video e audio dei pc di allora, alcune “storie digitali” fossero incantevoli già all’inizio degli anni Novanta:
Non per niente gli ex bambini degli anni Ottanta sono tuttora acquirenti abituali di videogiochi (l’età media di chi li usa in Italia s’aggira sui 30 anni) e, certamente, sono loro che hanno introdotto i propri figli a questo mondo. Anche per questo una famiglia su due, oggi, ha in casa almeno una console.
Quindi, papà e mamme, non accettate di sentirvi escludere da un mondo che è legittimamente vostro. Quella di essere “immigrati digitali”, se deve equivalere a sentirsi incapaci (o, peggio, giustificati) rispetto al capire che cosa fanno i figli davanti agli schermi, è una panzana bella e buona.
Detto questo, i “nativi digitali” esistono ed è un discorso molto serio, di cui riparleremo. Seriamente.



