Quasi di nascosto, alla chetichella, con falsi nomi, 50 anni fa, il 12 settembre 1964, usciva nelle sale italiane un film destinato a cambiare le regole di uno dei generi per eccellenza della storia del cinema: il western. Cow boy e pellerossa, eroi solitari e banditi a gruppi, sceriffi e assaltatori di treni, donne indifese e vecchietti dalla voce stridula, ranch e polvere, cavalli e vallate: tutto spazzato via nello spazio di un’ora e mezza circa. E non dalla nazione che poteva e doveva sentire questo tema come un richiamo naturale, ma dall’Italia, che col western c’entrava come i cavoli a merenda.
Quel giorno, a Roma, viene presentato un film, Per un pugno di dollari, destinato a chiudere un’epoca per dare il via a un nuovo modo di raccontare le storie del vecchio West. Il regista si firma Bob Robertson, le musiche sono dello sconosciuto Don Savio, il protagonista è un segaligno attore di serie Tv, Clint Eastwood. Con lui, tale John Wells, il cattivo, spietato nemico di Eastwood. Gli scenari, presi in prestito da una fantasia tutta europea che sposta e confonde New Mexico e Messico, Arizona e Texas, sono lì, a due passi da Cinecittà, campagne con donne che vanno a raccogliere la cicoria, ma anche in Spagna, dove viene scovato un villaggio in stile, pensa un po’, “messicano”.
Robertson si è “impossessato” di un film giapponese, addirittura di quello che viene chiamato “l’imperatore”, Akira Kurosawa, una storia di due famiglie in lotta tra loro e di un samurai che fa piazza pulita di entrambe. Lo rifà “paro paro” ma lo trasferisce in un West fantasioso e mai esistito. E neanche questa fu, comunque, una novità assoluta: in Germania, nello stesso periodo, si girano film western di serie B in cui si cerca qualche novità rivitalizzante per il genere. Ma tutto finiva lì, dalle parti di Berlino.
Terminato il film, il regista Bob Robertson (che nella realtà era Sergio Leone) porta la pellicola a un suo amico esercente di Firenze. È fine agosto e la leggenda parla di strani giorni di successo imprevisto. Altri dicono che in realtà il film piaceva all’amico di Leone e che se lo volle rivedere. Altri ancora dicono che questa sia una storia inventata dalla produzione per fare pubblicità al film che sarebbe uscito a Roma il 12 settembre. Fatto sta che quando a Roma viene presentato, Per un pugno di dollari divide la critica: tutti sottolineano la buona regia ma sono anche convinti che troppo sangue, troppi morti, troppe battute siano deleterie per prevedere un buon successo.
Invece, come al solito, il passaparola e la continua citazione di battute divenute epiche portano sempre più spettatori: e se è vero, come dice John Wells a Eastwood (a proposito, quel John Wells altri non era che Gianmaria Volonté) che «quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile l’uomo con la pistola è un uomo morto», è ancora più vero che quando uno spettatore cita una battuta di un film a chi il film non l’ha visto, quel film è destinato a vivere per sempre.
Sostenuto da una regia impeccabile e nuova, con primissimi piani divenuti cifra stilistica distintiva di Leone; esaltato da un attore talmente poco bravo da risultare imbattibile nella parte (di Eastwood Leone disse: «Ha due espressioni: una col cappello e una senza» e quando un anno più tardi l’attore pregherà il regista di non fargli più usare il sigaro nel film Per qualche dollaro in più, Leone risponderà secco: «E che vuoi che tolga proprio il protagonista?»); circondato più che sorretto dalle musiche perfette per il genere e capaci di essere memorizzate immediatamente di Don Savio (altro nome fasullo: era Sergio Morricone), Per un pugno di dollari diventa campione d’incassi e fa nascere un genere, una parodia del western composta da cinismo misto a ironia, tecnica sopraffina e semplicità narrativa, sangue a fiumi e battute al vetriolo: lo spaghetti-western.
Un genere di successo così clamoroso da diventare inflazionato nel giro di pochissimi anni, tra Ringo, Django, Sartana, e altri sempre più improbabili pistoleri, fino all’esaurimento del filone nel suo ambito più comico, con Bud Spencer e Terence Hill. Ma quell’inizio sotto falsi nomi la dice tutta su quanto poco i protagonisti di quell’avventura avessero compreso che il pubblico era prontissimo a mettere mano al portafoglio per loro così come i vari Ringo a metterla nella fondina.
Quel giorno, a Roma, viene presentato un film, Per un pugno di dollari, destinato a chiudere un’epoca per dare il via a un nuovo modo di raccontare le storie del vecchio West. Il regista si firma Bob Robertson, le musiche sono dello sconosciuto Don Savio, il protagonista è un segaligno attore di serie Tv, Clint Eastwood. Con lui, tale John Wells, il cattivo, spietato nemico di Eastwood. Gli scenari, presi in prestito da una fantasia tutta europea che sposta e confonde New Mexico e Messico, Arizona e Texas, sono lì, a due passi da Cinecittà, campagne con donne che vanno a raccogliere la cicoria, ma anche in Spagna, dove viene scovato un villaggio in stile, pensa un po’, “messicano”.
Robertson si è “impossessato” di un film giapponese, addirittura di quello che viene chiamato “l’imperatore”, Akira Kurosawa, una storia di due famiglie in lotta tra loro e di un samurai che fa piazza pulita di entrambe. Lo rifà “paro paro” ma lo trasferisce in un West fantasioso e mai esistito. E neanche questa fu, comunque, una novità assoluta: in Germania, nello stesso periodo, si girano film western di serie B in cui si cerca qualche novità rivitalizzante per il genere. Ma tutto finiva lì, dalle parti di Berlino.
Terminato il film, il regista Bob Robertson (che nella realtà era Sergio Leone) porta la pellicola a un suo amico esercente di Firenze. È fine agosto e la leggenda parla di strani giorni di successo imprevisto. Altri dicono che in realtà il film piaceva all’amico di Leone e che se lo volle rivedere. Altri ancora dicono che questa sia una storia inventata dalla produzione per fare pubblicità al film che sarebbe uscito a Roma il 12 settembre. Fatto sta che quando a Roma viene presentato, Per un pugno di dollari divide la critica: tutti sottolineano la buona regia ma sono anche convinti che troppo sangue, troppi morti, troppe battute siano deleterie per prevedere un buon successo.
Invece, come al solito, il passaparola e la continua citazione di battute divenute epiche portano sempre più spettatori: e se è vero, come dice John Wells a Eastwood (a proposito, quel John Wells altri non era che Gianmaria Volonté) che «quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile l’uomo con la pistola è un uomo morto», è ancora più vero che quando uno spettatore cita una battuta di un film a chi il film non l’ha visto, quel film è destinato a vivere per sempre.
Sostenuto da una regia impeccabile e nuova, con primissimi piani divenuti cifra stilistica distintiva di Leone; esaltato da un attore talmente poco bravo da risultare imbattibile nella parte (di Eastwood Leone disse: «Ha due espressioni: una col cappello e una senza» e quando un anno più tardi l’attore pregherà il regista di non fargli più usare il sigaro nel film Per qualche dollaro in più, Leone risponderà secco: «E che vuoi che tolga proprio il protagonista?»); circondato più che sorretto dalle musiche perfette per il genere e capaci di essere memorizzate immediatamente di Don Savio (altro nome fasullo: era Sergio Morricone), Per un pugno di dollari diventa campione d’incassi e fa nascere un genere, una parodia del western composta da cinismo misto a ironia, tecnica sopraffina e semplicità narrativa, sangue a fiumi e battute al vetriolo: lo spaghetti-western.
Un genere di successo così clamoroso da diventare inflazionato nel giro di pochissimi anni, tra Ringo, Django, Sartana, e altri sempre più improbabili pistoleri, fino all’esaurimento del filone nel suo ambito più comico, con Bud Spencer e Terence Hill. Ma quell’inizio sotto falsi nomi la dice tutta su quanto poco i protagonisti di quell’avventura avessero compreso che il pubblico era prontissimo a mettere mano al portafoglio per loro così come i vari Ringo a metterla nella fondina.


