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Capitano, mio capitano, lei ci ha illusi. Noi Juventini intendiamo. Non per il fatto di aver sbagliato la porta della finale di Europa League. Ci ha illusi con un gesto inconsulto e improvviso, fuori tradizione. E stato quando ha invitato i suoi, i nostri - gli Juventini bagnati dalla pioggia e inaciditi da un Benfica rissoso e furbetto – a tornare al centro del campo dopo il triplice fischio, a mietere applausi. Un piccolo lampo di saggezza, di nobiltà. Seguito di lì a poco, davanti ai microfoni, da un fado lento e stucchevole, un mix di recriminazioni (l’arbitro inetto) e livore (vanno in finale i non meritevoli), fotogrammi in bianco e nero (il rigore negato) e orgoglio da provinciali (la Uefa ci doveva rispetto). Diciamola tutta: contro il Benfica noi Juventini abbiamo perso una semifinale, lei ha fallito la finale della sportività. Ha illuso chi non ci sta a perdere così. Rimpiangendo, recriminando, tornando tutti bambini delusi che abbrancano il pallone e dicono: “E’ mio, torno a casa”.
Sappiamo bene che ogni squadra ha il suo dna. E che quel che scriviamo potrà non piacere ai nostri consanguinei bianconeri. Non vorremo certo scomodare l’antropologia – come si suole fare con noi napoletani – e star lì a distinguere che esiste una Juventinità borbonica, attenta al torto e sospettosa del danno, e una normanna, che affronta vittorie e sconfitte con la stessa livella: sacrificio, onore, silenzio. Noi rivendichiamo una Juve uguale per tutti, nei giorni di buona e di cattiva luna. E’ quella dei Furino, gregario di polmoni, scarpate e trofei. O dei Platini, genio e ironia a braccetto. O, per dire di oggi, dei Tevez, tutto rabbia e mai una finta per cadere senza doverlo.
Abbiamo un’idea un po’ romantica di quella maglia, fatta di contrasti, di bianchi e di neri. Un’idea mai avara di sé, generosa per eccesso di forza, come quel gigante buono che faceva nome John Charles, e mai ha stincato un avversario perché ne aveva fin troppi di muscoli per abbassarsi all’oltraggio di sé.
Insomma, è proprio perché abbiamo un’idea di sovrana superiorità di noi stessi, perché ci pensiamo più forti nel soffrire e nel tenere, nel patire e nel battersi a mani nude con l’avversario e la vita (cos’ altro è una partita di pallone?) che non ci piace perdere così. Perché sappiamo di essere davvero i più forti e non si vincono 30 scudetti senza saper patire. Perché lei ci ha insegnato, da calciatore, da capitano e da mister, che vita e sport hanno un finale che ogni volta qualcuno sposta oltre, in avanti, ed è questo che vale il viaggio.
Capitano, mio capitano, bastava dire: onore al merito, hanno vinto loro perché non siamo stati folli e affamati come sempre. Oppure: onore alla furbizia, nell’ultimo quarto d’ora loro hanno toreato di nervi e a noi invece avevano detto che era solo una partita. Bastava un pizzico d’ironia e dire che Buffon era scomparso da un paio d’ore e qualcuno lo aveva visto al cinema. E aggiungere che la cosa migliore era stato l’applauso finale. Finale né triste né solitario ma di squadra. Ci riprovi, mister. La prossima volta, vinca davvero e ci stupisca. Basterà dire: abbiamo perso. Punto.



