Vi sono storie nelle normali vicende quotidiane che esplodono inspiegabilmente e lasciano profonde cicatrici sulla pelle della storia stessa. Una è quella di Erika con il matricidio e il fratricidio. Sono passati undici anni e la ferita sociale non rimargina. Mancano pochi mesi alla scarcerazione e li sta scontando in una delle mie comunità lavorando, riflettendo, piangendo e sorridendo. Perché le cose inspiegabili che più spiazzano sono il suo volto, il suo sorriso e la sua gentilezza. Se un volto simile può uccidere, quanti potrebbero fare quello che lei ha fatto, spiazzandoci e terrorizzandoci?

Comunque le mie riflessioni sono altre e partono dalle pesanti allusioni e dichiarazioni della gente: perché perdonare, aiutare, seguire, credere, in un’assassina perversa? Non va lasciata dentro a marcire, buttando la chiave? Credo di no. E lo credo perché ognuno di noi, dentro potenzialmente è Caino e Abele. Voi direte che c’è Caino e Caino. Uccidere madre e fratellino non lo avrebbe fatto nemmeno chi ha ucciso Abele. Non è vero. Nei raptus non c’è limite. Il bene e il male giocano misteriosamente, trasformandosi, sublimandosi, scatenandosi bestialmente. Il nostro corpo è un contenitore fragile per l’infinito che porta dentro.


Non voglio con questo giustificare i misfatti. Voglio solo domandarmi perché io, molto peggiore di lei da piccolo e da adolescente, ho sentito dentro di me trasformarsi, in una straordinaria e rischiosissima avventura positiva, quello che sarebbe potuto essere un disastro. Già a 14 anni ho cercato il suicidio. Nessuno è irrecuperabile, come nessuno è santo per decreto divino. Non ho mai domandato né a me né a lei di perdonare e di perdonarsi. È importante per lei riparare le lacerazioni profonde, la voragine di dolore, per poi capire. Quando? Come? Non lo so. La seguo da dieci anni e sono convinto che nessuna diagnosi psichiatrica e psicoanalitica arriverebbe a toccare il fondo di quest’anima.

Qui non si tratta di attaccare cerotti, di ricostruire parti di sé, di ridisegnare triangoli mal riusciti. Qui o si rinasce o si piomba nella tempesta omicida. È il nostro “mestiere”. Perché Erika non è il caso, ma la prima parte di una storia. Lì dentro va progettata, con umiltà, pazienza, con animo scevro da pruriti scientifici, la seconda parte della storia stessa. La sfida è crederci. Riparare i mali che facciamo, anche noi normali, occupa metà della nostra vita. L’altra metà la consumiamo nella speranza di essere capiti e perdonati. Se lo capirà, la voragine di dolore si trasformerà in un enorme ulivo e la farà rifiorire.

Questi misfatti devono servire a noi per interrogarci, per giudicare di meno e per guardarci dentro, alla ricerca di quell’Abele che sappia abbracciare il fratello Caino, mentre lo sta sacrificando. Perché l’amore non ha sponde! Il guaio è che noi non siamo Abele. Troppo conciliante, troppo umano! Non siamo nemmeno Caino! Siamo solo guardoni (vedi ultimo numero di Panorama).