Segnali confortanti per il cinema. Quest'anno, la Croisette è stata affollata più del solito: segno che, malgrado la crisi, c'è voglia di reazione. Da tempo poi non si vedevano così tante buone pellicole come nella selezione ufficiale di questo 66° Festival di Cannes. Per carità, le delusioni non sono mancate. Uno su tutti, il danese Nicolas Winding Refn che, celebrato frettolosamente come un maestro dopo il successo di Drive, è tornato col suo attore feticcio Ryan Gosling presentando in concorso Only God Forgives: bellissima fotografia ma storia di sconcertante banalità, tra vendicatori e giustizieri che si inseguono nei vicoli notturni e nei locali labirintici di Bangkok. Una via di mezzo tra certi film asiatici oggi di moda, tutti kick-boxing e kung-fu, e gli stilemi del cinema di Tarantino. Senza però l'ironia di fondo di Quentin. Risultato? Un gelido guazzabuglio di sangue e mutilazioni.

Ecco, il dato che emerge prepotente dalle immagini di tanti film sulla Croisette è la sovrabbondanza di violenza. Una ferocia che attraversa molte delle storie proposte come se, dopo ciò che ci propina ogni giorno la Tv, il cinema non possa far altro che accrescere le dosi per fare effetto sullo spettatore. Si spiegano così le reiterate crudeltà del film olandese Borgman, del giapponese Shield of straw (Scudo di paglia) e perfino del cinese A touch of sin (anche se Jia Zhangke le utilizza per narrare il diffuso disagio di una Cina che rischia di perdere i suoi valori nella corsa sfrenata verso il benessere capitalista). Altro dato spiazzante la diffusa presenza di scene di sesso, prolungate ed esplicite, fin quasi a sfibrare la resistenza dello spettatore. Nel film Jeune & Jolie del francese François Ozon: storia di una ragazza borghese che si prostituisce ma non per soldi. In L'inconnu du lac del'altro francese Alain Guiraudie: in gara nella sezione Un certain Régard ma capace con  dell'ace di mettere a disagio l'intero festival con un'ora e mezza di dettagli nei rapporti omosessuali tra maschi. E anche ne La via d'Adèle del franco-tunisino Abdellatif Kechiche: qui almeno non c'è volgarità, anche se l'intensa storia d'amore tra due ragazze indugia fin troppo su tenerezze e particolari anatomici facendo deragliare il film dal realismo emotivo al sospetto voyeurismo.

Messo da parte il ciarpame, nella rete del festival sono comunque rimasti impigliati tanti buoni titoli, capaci di affrontare con durezza la realtà puntando sulla brutalità dei sentimenti o della loro assenza. La grande bellezza, di cui abbiam detto, è piaciuto alla critica internazionale e magari potrebbe tornare a casa col premio per la miglior regia (viste le personalissime scelte stilistiche di Sorrentino). Diamo poi per scontato il premio del miglior attore a Michael Douglas, funambolico e toccante nell'interpretare il pianista Liberace in Behind the candelabra di Steven Soderbergh (magari ex aequo con Matt Damon, che gli fa da degna spalla).

Purtroppo, quasi altrettanto scontato il premio della migliore interpretazione femminile a Léa Seidoux e Adèle Exarchopoulos per il film scandalo La via d'Adèle, osannato dai cinefili. In realtà, per noi l'attrice più meritevole è di gran lunga Emmanuelle Seigner in Venere in pelliccia, il nuovo film di Roman Polanski che ha chiuso in bellezza il concorso: due personaggi in scena, un intellettualoide regista di teatro (Mathieu Amalric) e un'attricetta male in arnese, presentatasi perfino fuori tempo massimo alla fatidica audizione. In un crescendo di duelli verbali e di tensione emotiva, l'audizione si svolgerà lo stesso, in piena notte. Per il malcapitato regista sarà memorabile. Una sorta di Carnage a due voci, invece che quattro. Un pezzo di bravura che dovrebbe valere a Polanski almeno il premio per la migliore sceneggiatura.

I tre premi maggiori del Palmarès, se esiste una logica nel lavoro di una giuria, cosa non garantita neppure se a guidarla è Steven Spielberg (nella foto di copertina di questo servizio), dovrebbero però andare ai film più belli che si sono visti sulla Croisette: Nebraska di Alexander Payne, Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen e Le passé dell'iraniano Ashgar Farhadi. Ecco come li attribuiremmo noi, alla vigilia: il nostro personalissimo Palmarès.
Al nuovo lavoro di Alexander Payne, il regista americano più cool del momento (suoi About Schmidt con Jack Nicholson, Sideways con Paul Giamatti, Paradiso amaro con George Clooney) noi assegniamo il Prix du Jury, vale a dire la medaglia di bronzo di Cannes. Girata in un ardito bianco e nero dai toni polverosi, questa storia incrocia il classico road-movie attraverso la sperduta provincia americana col più antico dei momenti drammaturgici: lo scontro e poi l'incontro tra padre e figlio. Solo che Payne lo fa con sguardo obliquo, quasi casuale, soprattutto senza dialoghi pretenziosi. Quella che scorre davanti alla cinepresa è la pura quotidianità del quarantenne David (Will Forte), sbiadito commesso in un negozio di elettronica, alle prese con le mattane senili del padre Woody (magistralmente interpretato da Bruce Dern, 76 anni, papà dell'attrice Laura Dern, quella di Jurassic Park).


Il vecchio, capelli bianchi scompigliati e barba incolta, sembra non starci più con la testa: se ne va continuamente di casa avviandosi a piedi lungo autostrade finché la polizia o il figlio stesso non lo trovano e riportano a casa. Kate, l'anziana mamma di David, dice che forse sarebbe meglio internarlo in una casa di riposo. Ma il figlio non se la sente, anche se quel padre, egoista e ubriacone, non è che sia stato mai un granché come genitore. Alla fine riesce a capire il perché di quella fissazione: Woody ha ricevuto tempo addietro una missiva pubblicitaria in cui gli si annunciava la vincita di un milione di dollari! E lui, anche se nessuno lo prende sul serio, vuole andare in Nebraska per ritirare quella somma... David tenta inutilmente di spiegargli che si tratta di un trucco. E quando l'esasperazione in famiglia pare ormai al livello di guardia, si decide e carica il padre in auto per fargli fare questo benedetto viaggio. Davanti al parabrezza scorre l'America più povera e rurale. Padre e figlio parlano con frasi smozzicate, dialoghi monchi, borbottii, lunghi silenzi. Eppure, pian piano cominciano a intendersi, a essere meno diffidenti. Al culmine di una serie di contrattempi, si vedranno costretti a pernottare nella cittadina natale di Woody, dove non metteva piede da decenni.

I familiari sembrano affettuosi, le vecchie conoscenze incuriosite da quel ritorno. Ma non appena si sparge la voce che Woody avrebbe vinto un milione di dollari, le cose cambiano. Tornano a galla antichi dissapori, presunti debiti, strani legami. E mentre il vecchio si vedrà tornare davanti il passato, il figlio scoprirà piano piano chi fosse stato un tempo Woody, quali sogni avesse, di che pasta buona fosse fatto. “Volevo un film che respirasse l'aria degli anni '60 e ritrovasse i contenuti degli anni '70. Ecco motivate le scelte del bianco e nero e del road-movie”, spiega il regista, 52 anni portati con eleganza. Nebraska è al tempo stesso un viaggio e un film fermo, ossia ben radicato nelle crepe del cuore di una tipica famiglia della middle class americana”. Coerente, intimista, capace di mixare toni agrodolci e corrosivi nel descrivere lo spirito più profondo dell'America, Alexander Payne ha il dono di raccontare con grazia. Riesce a far capire allo spettatore più cose del suo Paese e dell'animo umano di certi cineasti calligrafici o documentaristi pretenziosi. La sua finzione è più reale del vero.

In Italia, Nebraska uscirà in autunno. Negli Usa a novembre, puntando agli Oscar. “Questo film è fortemente radicato nel mio Paese e tutti i suoi personaggi sono al tempo stesso osservatori della vita e protagonisti”, aggiunge Payne. “Nella misura in cui ci si possa sentire protagonisti di esistenze così anonime da essere ineluttabilmente autentiche”.
I fratelli Joel e Ethan Coen sono stati così tanto premiati a Cannes (addirittura scoperti dal festival nel 1991 con la Palma d'Oro a Barton Fink) che immaginarli di nuovo nel Palmarès è una scommessa. Come ignorare però la sommessa bellezza di Inside Llewin Davis? Noi gli attribuiamo il Grand Prix, ovvero la medaglia d'argento del festival. L'anno è il 1961, quando la rivolta giovanile, la beat-generation, la nuova musica, il Village di New York dovevano ancora prendere forma. Tutto è ancora in embrione, eppure la nuova vita già cova sotto la cenere. La vecchia foto ritrae due giovani musicisti, due giovanotti arruffati e infreddoliti. I Coen, lasciano perdere il ricciolino sulla sinistra, che un giorno sarebbe poi diventato famoso in tutto il globo col nome di Bob Dylan. Loro puntano la cinepresa sull'amico accanto, un ragazzotto con la barba e il volto stropicciato dalla vita: un sicuro perdente.

Nella realtà, quel musicista che non ebbe mai neppure un briciolo del successo di Bob Dylan si chiamava Dave Van Ronk. Per rispetto e senso di libertà artistica, i Coen hanno cambiato il nome. Ma la storia e le irripetibili atmosfere di quel tempo sono reali, addirittura palpabili. All'epoca, un cantante folk come Llewyn non puntava ai soldi ma solo a esibirsi davanti a un pubblico sempre più numeroso “rimanendo sé stesso”. Mica facile, in una New York invernale dal clima glaciale e in un Greenwich Village ancora non pronto a fare da culla al movimento giovanile, alla contestazione, al ribaltamento dei valori tradizionali. Llewyn si trascina nel gelo senza cappotto con borsone, chitarra e perfino un gatto rosso sotto il braccio. Passa di locale in locale senza aver successo e sopravvive per lo più grazie ai pasti e all'occasionale ospitalità di amici, colleghi, colti estimatori e perfino della sorella perbenista, che lo bolla come un fallito. Gli restituiscono uno scatolone con le copie del suo LP invenduto, Inside Llewyn Davis. La bella collega Jean lo strapazza perché è incinta e crede che il colpevole sia lui. Fa l'autostop per recarsi a Chicago (per l'ennesima inutile audizione) e si fa caricare da un grasso jazzista eroinomane con tanto di autista: altra esperienza indimenticabile.

Del suo personalissimo girone dantesco, Llewyn non salta neppure una tappa. Eppure, quando si ferma a cantare è folgorante. Solo, troppo avanti rispetto ai tempi. E se il classico anti eroe dei fratelli Coen a volte finisce per riscattarsi, Llewyn invece parte perdente e arriva, a passo strascicato, esattamente allo stesso modo. La capacità dei Coen di far riassaporare allo spettatore gusti e atmosfere di quell'epoca è stupefacente. Sembra di guardare dentro un album ricordo, fatto di foto viventi, di quella che sarebbe diventata la beat-generation. Nei panni del protagonista, Oscar Isaac è bravissimo, anche e soprattutto quando si tratta di cantare. E il contorno è fatto da attori coi fiocchi: Carey Mulligan (già a Cannes per l'inaugurazione con Il grande Gatsby) è l'aggressiva Jean; Justin Timberlake (che finalmente recita) è suo marito nonché cantante dall'immeritato successo; il grasso jazzista non poteva essere che John Goodman mentre l'impresario che prevede per Llewyn un cronico insuccesso è F. Murray Abraham. Una storia che potrebbe sembrare triste e che invece ti fa uscire dal cinema di buon umore. Perché i Coen narrano con levità le brutture umane, sanno rendere attraente perfino la New York più sporca e gelida. E suscitano la nostalgia di quelli che, comunque, erano tempi più umani.
Più di tutti, è piaciuto Le passé del regista iraniano Asghar Farhadi, per l'occasione trasferitosi a girare in Francia (ragion per cui il film batte bandiera transalpina). Farhadi ci sa fare con i legami ingarbugliati degli affetti familiari e delle passioni sentimentali, non per nulla un paio d'anni fa ha vinto l'Oscar per il miglior film straniero con Una separazione. Anche al centro della nuova storia c'è un divorzio da sancire, quello tra la volitiva Marie (madre di due figlie ma anche con un terzo ragazzino per casa, figlio del suo nuovo compagno Samir) e l'iraniano Ahmad, che si era stabilito a vivere con lei a Parigi ma poi era dovuto, o voluto, rientrare a Teheran. Sono quattro anni che i coniugi non si vedono ed è ora di firmare le carte. La straordinaria sensibilità del regista fa sì che sullo schermo non si assista alla solita sarabanda di urla e litigi, ma si racconti la quotidianità di due persone che comunque continuano a stimarsi e che cercano di risolvere meglio possibile la dolorosa situazione. Meglio possibile soprattutto per i ragazzi, che vivono tutti insieme nella casetta di periferia di Marie con il rabberciato giardino per i più piccoli e tanti lavoretti di manutenzione da fare all'interno.

E' con pudore, perfino con riluttante delicatezza, che Ahmad (l'intenso attore iraniano Ali Mosaffa) si intromette nella vita quotidiana della famigliola. Non per seminare zizzania, malgrado l'iniziale diffidenza di Samir (il bravissimo Tahar Rahim scoperto proprio da Cannes qualche hanno fa col film Un profeta). Il fatto è che la figlia più grande, Lucie, non ne vuol proprio sapere di accettare il nuovo compagno della madre. Gelosia? Timore di violenze? Ahmad scava dolcemente nel passato, in quegli anni in cui lui non c'era e scopre pian piano molto di più. Un intrigo di piccoli gesti, menzogne, involontarie cattiverie capace di far male, a turno, a tutti i protagonisti. La scoperta che lacera il precario equilibrio dei personaggi è che Samir una moglie ancora ce l'avrebbe: la madre del piccolo Fouad, che gira ribelle per casa. Solo che lei ha tentato il suicidio e giace in coma all'ospedale. Perché l'amore può anche far male. E la mancanza di un padre, così come il bisogno di una madre, possono segnare profondamente l'animo di chi è ancora adolescente. E' una spirale di affetti e di complicazioni, quella in cui Farhadi tuffa lo spettatore. Si resta dolcemente invischiati. Impossibile non parteggiare per la vitale Marie, che di giorno fa la farmacista e poi a casa fa mille mestieri per tenere assieme la sua famiglia sgangherata. Anche perché Marie ha il volto bellissimo e intenso di Bérénice Bejo, l'attrice francese coprotagonista del film Oscar (muto) The artist. Farhadi non spara sentenze, non giudica da dietro la cinepresa. Si limita a suggerire che in un momento difficile, qual è sempre un divorzio, tutti possono avere le proprie ragioni ma devono poi sapersi spartire anche le colpe.


Farhadi filma un thriller del cuore, elegante e struggente come solo le piccole storie ben raccontate sanno essere. E se nessuno si salva è perché dietro l'errore di ognuno c'è il precedente dolore arrecato da un altro. E ciò vale anche per l'ignaro Ahmad. Film bellissimo, a cui si ripensa uscendo dal cinema con una punta di dolore, che gli spettatori italiani dovranno però attendere con pazienza, perché la Bim (che è pure coproduttrice) lo distribuirà nella prossima stagione anche nel caso che figuri nel Palmarès. Per noi, è la Palma d'Oro di quest'anno. “La verità non è qualcosa che si possa fissare nel tempo o nello spazio. E' fluttuante e le relazioni umane, in linea generale, sono fatte di sentimenti contraddittori”, spiega Farhadi, a 41 anni uno dei maggiori cineasti iraniani accanto ad Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf e Jafar Panahi. “Ciò che ci fa invecchiare non è il tempo che passa bensì il passato che prende via via più spazio nella nostra vita. D'altronde, solo i bambini sanno vivere il presente. E gli adulti filtrano il passato attraverso nostalgie o sensi di colpa. Ecco perché gli esseri umani hanno sempre la tentazione di predire l'avvenire e di riscrivere il passato”.