Nulla è impossibile
Arrivo a Cosenza un po’ tramortita dal viaggio in macchina e conquistata dal mondo: fuori è aria, orizzonte, spazio.
I giorni che seguono sono pieni: di gente, di amore, di vita. Zio Mike ha una casa grande, per fortuna. Da quando Marisa non c’è più la condivide con i miei cugini, Domenico e Daniela. Cede a me e a mia madre la sua stanza, mentre lui si accampa in soggiorno con papà. Ogni mattina si sbaracca tutto: il divano diventa il mio rifugio, dove passo la maggior parte del tempo a guardare la televisione e a diventare una campionessa imbattibile di Super Mario. Quando supero tutti i livelli mi sento come abbandonata e ricomincio da capo.

Cerco di cancellare il pensiero di cosa accadrà di lì a poco. Non vedo l’ora di arrivare a Budrio e al contempo sono impaurita dall’idea di provare nuovi dolori, dalla possibilità di non farcela.
Prendo confidenza con la mia nuova “bat mobile” – una sedia da ufficio – e cerco di arrivare in cucina da sola all’ora di pranzo o di cena. Mi faccio decine di foto con il cellulare e mando mm s ai miei amici, cugini e zii che, tornati alla vita di tutti i giorni, sono curiosi di sapere come procedono le mie giornate.

La domenica è il giorno delle sorprese: sono in tantissimi a farsi due ore di strada tutt’altro che bella per venire a trovarmi da Reggio, giocare con me a carte o a Monopoli, portarmi la pasta al forno o, semplicemente, abbracciarmi.
Daniela e Domenico, i miei cugini, si rivelano meravigliosi: non solo ci fanno spazio nella loro casa, ma mi assistono nel mio percorso di indipendenza. È grazie al loro aiuto, oltre che a quello di mamma e papà, se imparo presto a lavarmi da sola: ogni sera mi portano in bagno e, avvicinandomi al bidet, mi aiutano con i moncherini.

Papà, Enza, la sua compagna, e zio Mike sono gli addetti a passarmi la crema e massaggiarmi le ferite: i massaggi alleviano il dolore e mi fanno percepire un po’ meno la sindrome dell’arto fantasma. Un sabato pomeriggio, stufi di rimanere a casa, tutti propongono con grande naturalezza di uscire per andare a prendere un gelato. Io, ormai abituata al letto o al divano, li incoraggio a uscire, avrei aspettato il loro ritorno.
Mi rispondono quasi in coro: «No, è inteso che devi venire anche tu!». «Ragazzi, non avendo le gambe sarà difficile che facciamo una bella passeggiata tutti insieme...» «Nulla è impossibile» risponde zio Mike. «Ti porterò io.» Salire in macchina è ancora un incubo, ma tenendo il finestrino abbassato e lasciando che l’aria mi sfiori il viso mi sento meno prigioniera.
Andiamo in centro, nella gelateria migliore e più frequentata di Cosenza. Indosso una tutina bianca, è impressionante vedere il pantalone vuoto. Papà parcheggia proprio lì davanti, zio Mike mi prende in braccio e ci avviciniamo al bancone.
Tutti mi guardano: i clienti, il gelataio, i passanti. Mi sento strana, diversa, ma non ho il tempo di riflettere, zio Mike incalza: «Devi scegliere il gusto del gelato». Per lui è tutto perfettamente normale: sta prendendo un gelato con sua nipote.
È grazie al suo sostegno, al suo atteggiamento (lo stesso che gli altri della mia famiglia avrebbero tenuto nei mesi a venire) che comincio a trovare la cosa divertente: smetto di badare agli sguardi attoniti e scelgo i miei gusti preferiti, nocciola e pistacchio. Io sono Giusy, anche senza gambe. Nessuno si vergogna di me né di stare lì insieme a me.
Immersa nelle scenette comiche allestite continuamente da papà e zio Mike, sostenuta con così tanta forza e amore dalla mia famiglia, dieci giorni passano alla velocità della luce.

La domenica prima della mia partenza per Budrio è una processione di gente con regali e bigliettini. Qualcuno porta una teglia di lasagne, Sabina e Angela, le sorelle di Felicetta, un barattolone gigante di Nutella, la mamma di Katia mi manda la sua inconfondibile sfoglia di spinaci.
Sacha mi porge un mazzo di fiori e una bella felpa arancione: conosce bene i miei gusti e azzecca anche questa. Katia, Manu e Fely, con dei sorrisi larghi da un orecchio all’altro, arrivano con un enorme pacco regalo.
Dentro, una bellissima tuta bianca con le bande viola sui lati e un paio di scarpe da ginnastica nuove, rosa e grigie. Delle scarpe nuove per i miei nuovi passi. Numero 37: il mio. «Al massimo potrai barare sull’altezza delle gambe» scherzano, sapendo che ho sempre avuto il complesso dell’altezza.

Da bambina passavo pomeriggi interi ad allenarmi con mia cugina Aita a fare il muro della pallavolo: pensavo che saltando mi sarei allungata, ma non ha funzionato... Prima di andare via, Katia si avvicina e, in disparte, mi allunga un libro. E li chiamano disabili... di Candido Cannavò, appena uscito.
Qualcuno in famiglia fa fatica ad apprezzarlo, io per niente: io voglio essere così, come loro, “disabile-per-modo-di-dire”. Lo apro e dentro trovo una dedica del suo ragazzo, Emanuele. Il giorno dell’incidente erano appena partiti per una vacanza in Sicilia. Quando la notizia li ha raggiunti stavano svuotando le valigie: bene, le hanno richiuse e sono tornati indietro, perdendo ovviamente i soldi della vacanza.
Leggo e mi scompiscio: “Vedi di tornare presto a camminare e ricorda che mi devi sempre 500 euro”. Qualche sorriso e molte lacrime di commozione dopo, ci abbracciamo tutti. Nuova vita: aspettami!
Con occhi nuovi
In aeroporto provo un mix di emozione e angoscia. È la prima volta che prendo un volo insieme a mia madre e a mio padre. Forse è l’adrenalina, ma mi ritrovo a pensare: “Speriamo che non caschi l’aereo proprio oggi che non ho le gambe”.
Partiamo da Lamezia per Bologna, dove mio fratello ci attende con la macchina per condurci al famoso Centro protesi Inail di Budrio. La strada da Cosenza a Lamezia è breve ma dal sedile di dietro tengo gli occhi sempre fissi sul guardrail, un filo di panico che mi tiene molto ma molto vigile. Accanto a me c’è mamma, che chiacchiera ininterrottamente per farmi distrarre e qualche volta mi massaggia pure le gambette.

In aeroporto zio Mike si fa carico di tutto l’aspetto organizzativo: due addetti con una sedia a rotelle vengono a prendermi e mi accompagnano in una sala d’aspetto riservata. La gente mi guarda, mi fa sentire diversa, a disagio.
Di colpo sono tornata bambina. Di colpo ho bisogno di qualcuno. Prego che non mi scappi la pipì proprio in quel momento: mi mette l’ansia l’idea di dovermi appoggiare sulla tazza di un bagno non mio, ma non avendo le gambe non ci sarebbero altre soluzioni.
Sono sempre stata molto schizzinosa, ma per fortuna papà e mamma si rivelano molto più bravi di me a gestire queste situazioni (per esempio estraendo da una qualche borsa dei copriwater). Siamo davvero pronti, noi tre.
All’arrivo a Bologna mi tocca un altro giro in sedia a rotelle. Mentre aspettiamo i bagagli mi sento impotente, indifesa.
Non posso fare niente: né dare una mano né, tantomeno, gestire il viaggio. È una sofferenza: sono abituata a fare tutto da sola, viaggiare è il mio pane quotidiano.
Per fortuna dura poco, e come usciamo veniamo travolti dalla gioia di Domy e dai suoi abbracci, che durano diversi minuti. Insieme a lui c’è Fabrizio, il ragazzo che mi mandava i succhi di frutta con i messaggi, carissimo amico anche di Domy, cui è stato vicino in queste settimane.

Il tragitto in macchina dura una quarantina di minuti: io sono sul sedile di dietro, al centro, stretta nell’abbraccio amorevole di mamma e papà. è fine ottobre e la nebbia è già molto fitta. Il sole di Cosenza sembra un lontano ricordo.

Vedere il Centro è uno choc. Le immagini su internet raccontano un’altra storia, la storia di una struttura nuova, luminosa, circondata dai famosi prati con le galline che mi aveva spedito mio fratello. Qua davanti ho un edificio rossiccio, con l’intonaco che cade a pezzi, il vialetto di asfalto con un paio di buchi e piccole aree di verde spelacchiate e tristi. Stringo forte la mano di mia madre, quasi a dirle: “Per favore, non lasciarmi”.

Mio fratello entra e si fa prestare una sedia a rotelle perché io possa scendere dall’auto. Mi sembra di disturbare, mi chiedo se forse avrei dovuto telefonare prima o farmi portare in braccio da qualcuno. Pensieri inutili: lì dentro tutto è normale, ma io non ne ho ancora idea. Sto per entrare in un nuovo mondo.
Varchiamo la soglia e ad accogliermi c’è solo Lucia, storica receptionist. Il lunedì sera, alle 17, scompaiono tutti. In questo vuoto pneumatico un po’ inquietante, il suo sorriso riluce come una cometa e contribuisce a tranquillizzarmi.
Tranquilla non lo sono per niente: mentre Lucia mi registra, vedo persone che camminano con dei tubi al posto delle gambe, gente senza braccia, addirittura uno senza un occhio. Mi sento un mostro: guardo loro, poi guardo me. Ho rifuggito il pensiero finché ho potuto, ma la verità è che io sono come loro: se loro sono mostri, anch’io lo sono.

Era deciso che mia madre sarebbe stata ricoverata insieme a me, mentre papà, Domy e Fabrizio si sarebbero fermati in hotel. Per qualche motivo ignoto il ricovero di mia madre non risulta da nessuna parte. Comincio a piangere e mi impunto: senza di lei io lì non ci rimango. Ho una paura dannata, temo che possano farmi chissà che cosa.

Tutti cercano di calmarmi, Lucia mi dice dolcemente che ci sono infermiere molto preparate, che per qualsiasi esigenza potrò chiedere a loro, che forse si tratta solo di una notte, ma niente: io senza mia madre lì non voglio stare. Dal giorno dell’incidente non sono mai stata da sola, neanche una notte: non sono pronta a cominciare adesso, e men che meno in quel posto.

Grazie alla preziosa collaborazione di Lucia, mio padre riesce infine a far inserire pure mia madre e, trattandosi della mia prima volta lì, mi assegnano una delle stanze più belle: la 10, l’unica con il bagno privato. Lucia ci accompagna e ci consegna una pila di fogli con tutte le informazioni necessarie: regolamento, orari e numeri di riferimento.
Facciamo giusto in tempo a posare le valigie perché alle 19 esatte viene servita la cena. L’impatto con la mensa è drammatico: siamo tutti lì, tutti invalidi, tanti in sedia a rotelle. Molti hanno il volto tirato, provato dalla fatica e dal dolore, altri disteso e disinvolto. Qualcuno ci invita a fare gruppo, ridendo e scherzando. Io e mia madre ci guardiamo pensando: “Non è capitato solo a noi”.

Subito dopo cena papà se ne va e noi torniamo in camera, sole. Mi butto sul letto meditando su una frase che mi avevano detto i medici al telefono: «In una settimana ti rimetteremo in piedi». Non ho idea di come. Del resto sono senza gambe e non ho mai visto una protesi. È ancora prestissimo e mamma mi convince a fare un giro di perlustrazione, tanto per vedere come sono fatte le protesi.

Lei mi spinge e io, curiosa e un po’ impaurita, mi rannicchio e mi faccio trasportare. Lungo il corridoio incontriamo dei ragazzi che chiacchierano seduti su una panchina. Rimango, ancora una volta, scioccata: tra tutti non saprei dire chi è messo peggio.

Molto gentilmente ci spiegano che di sera il reparto officina viene chiuso e ne approfittano per presentarsi e fare due chiacchiere con me. Mamma dice che ho avuto un incidente e mi incoraggia a parlare con loro ma io rimango molto sulle mie, raccontando l’accaduto solo brevemente: non ho alcuna voglia di socializzare e di parlare di me, così trovo il modo per cambiare discorso e chiedere cosa è successo a loro, perché si trovano lì.
Di fronte a me c’è Lucia, una ragazza napoletana che ha avuto un incidente in motorino: hanno dovuto amputarle una gamba fino all’anca. Poi c’è Giuseppe, palermitano, che prima dell’incidente faceva il camionista.

Ha un’aria pacata e simpatica, si rende conto del mio choc e mi dice sorridendo: «Anche io sono un bilaterale e cammino, potrai farlo anche tu se solo lo vorrai». Accanto a lui, Sabina, piemontese delle Langhe. Se chiudo gli occhi mi sembra di sentir parlare Enrica, una mia amica di Alba.

Guardandola, però, torno alla realtà. Sono lì, in mezzo a loro, amputata come tanti. Sabina non ha avuto nessun incidente ma è nata affetta da focomelia, una malattia che non consente la formazione completa degli arti. Le mancano completamente le gambe.

Mi chiedo come possa vivere così, che vita sia la sua, eppure ha un sorriso e una serenità fuori dal comune. Accanto a lei c’è Antonio, un bel ragazzo siciliano, silenzioso e discreto. A differenza degli altri, tutti in tuta, con stampelle o sedia a rotelle, lui è in jeans e maglione. All’apparenza non gli manca niente, lo etichetto come accompagnatore e non chiedo nulla. Leggermente sconvolta, dico a mia madre che sono stanca e le chiedo di tornare in camera.
La notte non riesco a dormire, ma non per i dolori: è preoccupazione. La mia spavalda sicurezza è crollata parlando con i ragazzi, guardando la gente in mensa. Fuori dal mio orizzonte consueto c’è un mondo di cui non mi sono mai accorta.

Nessuno di noi se n’è mai accorto. Siamo così presi dalle nostre vite, dalla nostra carriera e dagli impegni più vari che spesso facciamo il grande errore di non guardarci nemmeno intorno. Gente così io non l’avevo mai vista, e se l’avevo incrociata per strada avevo pensato la stessa cosa che ho letto negli sguardi dei passanti davanti alla gelateria: “Poverina”, “Che sciagura”, “Come farà?”.

Ora li guardo con attenzione e sono tanti. Appena entrata ho guardato quelle persone con questi occhi, occhi razzisti, occhi sbagliati. Tra me e me li ho chiamati “mostri”. Mi ha fatto impressione vedere i tubi che camminavano, gente malformata, monca, con manine o piedini attaccati a metà delle braccia o delle gambe. Mi sono demoralizzata, perché se io sono lì, sono come loro.
Sono un “mostro”? No, nessuno mi ha mai fatto sentire tale. Non mio padre, che mi massaggia i moncherini, non mia madre, che era lì accanto a me in mensa, non mio zio, che non si è vergognato di portarmi in braccio nel posto più gettonato della sua città.

È stato tremendo capire che ciò che faceva di me un “mostro” erano quegli occhi. Ma ci ho messo poco. E quegli occhi li ho cambiati immediatamente con altri privi di pregiudizi, più tersi, più puliti.