Sarà anche suggestione, ma questa notizia del ritiro di Valentina Vezzali, così vicina alla consegna della bandiera per Rio 2016 a Federica Pellegrini, sembra un passaggio di testimone tra due grandissime destinate a restare a lungo nella storia dello sport italiano e a giocarsela nella classifica impossibile tra le migliori di sempre con altre icone come Sara Simeoni e Deborah Compagnoni.

Un testimone lungo come l’asta della bandiera, che non per caso Valentina portò a Londra 2012. Grandissime e diversissime Valentina e Federica, anche per la storia di due discipline che non si somigliano. Ultratecnica, di scuola e di nicchia la scherma, eterno forziere dello sport azzurro: emergere nel fioretto femminile, negli anni infiniti di Valentina, ha voluto dire vedersela con allenamenti che erano già una finale olimpica in casa. Perdere voleva dire perdere dalla compagna di nazionale, magari anche di società, con due effetti complementari: da una parte subire il bruciore che scotta di più quando mors tua è vita della tua vicina e se perdi vedono solo lei, dall’altra l’indiretto (minuscolo) vantaggio di non trovarsi nella condizione di pressione che può avere chi è solo con una nazione sulle spalle.

Questo, sì, a Federica è capitato tante volte, perché da lei ci si aspettava il record del mondo e se non arrivava lei, fatta salva la parentesi breve e intensa di Alessia De Filippi, il nuoto femminile andava in bianco e c’era da gestire oltre alla propria la delusione di un Paese con i titoli dei giornali che grondavano rammarico.

Si somigliano Federica e Valentina nell’istinto vincente, nella precocità, nell’ansia che consuma attorno alle gare che contano: Federica sta male i giorni prima, a Valentina vedevi la tensione nelle occhiaie durante la gara, sotto la maschera: impressionante a Pechino leggerle negli occhi la sofferenza che costa stare lì in mezzo a giocarsi il mondo, inimmaginabile da fuori in una esperta così. Eppure possibile perché il giorno del giudizio nello sport d’alto livello si va in gara come si è: di forma e di testa. Ha ragione Dino Zoff: il campo ti tira fuori come sei.

Valentina e Federica si somigliano nella capacità di tirare fuori il meglio in gara dove conta, anche quando la paura umanissima potrebbe tradire. Fuori sono diverse, franca al limite della spigolosità, ma sempre spontanea e diretta a costo di urticare Federica, più attenta a raccontarsi modulandosi sull’interlocutore Valentina, più diplomatica a costo di sfiorare la compiacenza Valentina. Ma mai dietro le quinte della gara, dove si vedeva benissimo che non le piaceva perdere, al di là dei complimenti di circostanza all’avversaria, laddove Federica, magari ingoiava una lacrima di delusione in diretta, esternando la rabbia di non essere stata come avrebbe voluto nei giorni no.

Due modi diversi di essere, che hanno il bello nella varietà dei caratteri e della vita, e che forse hanno qualche radice nel modo in cui lo sport le ha date in pasto al mondo: Valentina, pur vincente già da giovanissima, ha avuto il tempo di abituarsi ai riflettori mentre Giovanna Trillini li distraeva, invece Federica li ha avuti sparati in faccia subito a neanche 16 anni e ha dovuto imparare – anche a sue spese - a nuotare anche in quella luce talvolta sgarbata.
 Bello vederle adesso passarsi, per l’ultima volta, la bandiera così, sorelle d’Italia come sul podio di Pechino, ora unite dall’onore che di solito spetta ai migliori.