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Disumanizzazione e remigrazione, geografia della disperazione e della speranza, grammatica dell’umano come prospettiva dei credenti. Attorno a questi punti si concentra il panel sul “Popolo dei profughi” dell’incontro internazionale “Osare la pace” (26-28 ottobre), organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma. Migrazione e pace sono temi profondamente connessi, come racconta il sudanese Said: «La guerra è quanto di più brutto possa esistere, brucia tutto quello che tocca. Le ferite della guerra sono difficili da curare, specialmente quelle che rimangono nell’anima». «Se il mondo vuole dire no ai rifugiati – si ripete al panel – dica di no alle armi». Per l’Unhcr a giugno 2025 erano 123,2 milioni – mai un numero così alto dalla fine della Seconda guerra mondiale – i migranti forzati per guerre e violenze generalizzate, il 40% dei quali sono minori, il 67% ospitato nei paesi confinanti, spesso a basso e medio reddito; aumenta non solo il numero dei conflitti, ma la loro durata, in molti casi sembra che non si chiudano mai. La gran parte dei profughi proviene da Venezuela, Siria, Afghanistan, Ucraina, Sudan, seguono Congo, Myanmar, Gaza, Haiti, Somalia, Eritrea.
Per contro, molti scelgono la paura dell’altro, perché – spiega il sociologo Manuel Castells – «le neuroscienze dicono che la paura è l’emozione umana più potente, spesso indotta o manipolata da guerrafondai interessati, a partire dai demagoghi politici fino al complesso militare-industriale». Lui stesso, oggi docente dell’Università californiana di Berkeley, è stato migrante in fuga dalla dittatura spagnola di Franco: «Dovevo rinnovare il permesso ogni tre mesi – ricorda – so cosa vuol dire essere privato dei diritti, sentirsi precario perché devi chiedere in prestito tempo e spazio». Se uno viene reso alieno, non umano, diventa pericoloso: «I suprematisti bianchi, ad esempio, affondano le radici nella disumanizzazione dell’altro».
Rendere gli altri alieni è quello che fanno molti punti del nuovo Patto Ue sull’asilo e la migrazione. Maria Quinto della Comunità di Sant’Egidio critica la scelta di quei «paesi europei che hanno autorizzato il rimpatrio degli afghani a Kabul» e gli Stati che hanno deciso di sospendere le domande di asilo politico presentate dai siriani, dopo la caduta di Bashar al-Assad. Quest’ultimo esempio rappresenta quanto sia cambiato l’atteggiamento dei paesi europei: nel 2015 l’Europa, e in particolare la Germania, decisero di accogliere in un anno quasi un milione di rifugiati, in gran parte siriani; dal dicembre 2024, invece, le richieste di asilo di cittadini della Siria neppure sono oggetto di una valutazione individuale. Sempre Quinto, portando ad esempio il programma dei corridoi umani realizzato da Sant’Egidio con cristiani delle diverse confessioni, sottolinea come il Patto europeo «non assume come centrale il tema degli ingressi legali e delle ammissioni umanitarie».
Il direttore di Avvenire, Marco Girardo, cita Hannah Arendt per indicare l’invisibilità come la forma più radicale di esclusione e come guardare e far guardare sia un primo atto di giustizia. Con l’iniziativa “Figli di Haiti”, il suo quotidiano vuole proporre un cambio di paradigma, ridando centralità a un paese dimenticato che ha un milione di sfollati interni su dieci di abitanti. Un esempio di invisibilità arriva, in un altro panel, da Daniela Pompei, responsabile di Sant’Egidio per i servizi agli immigrati: «Ho visitato un luogo dove vivono 3000 persone tra richiedenti asilo, rifugiati, lavoratori, e vari irregolari». È “la Pista” di Borgo Mezzanone in Puglia: «Il campo si trova sulla pista di un aeroporto militare dismesso della seconda guerra mondiale, in mezzo alla campagna, isolato, inaccessibile alla vista». Per raggiungerlo, dall’ultima fermata del bus, ci vuole un’ora di cammino a piedi: «Ci sono solo baracche di fortuna, non c’è elettricità, mancano servizi igienici, non c’è servizio di raccolta dei rifiuti». Vivono nel campo soprattutto giovani uomini soli, poche donne: «Durante il giorno fino alla prima parte del pomeriggio il campo è quasi deserto ma poi c’è il ritorno dal lavoro, la gran parte sono lavoratori agricoli. Non ci sono italiani, non c’è l’Italia è terra di nessuno!». L’esatto contrario dell’integrazione: «Ci siamo chiesti come sia possibile che esista un posto così in Europa».
Il direttore di Avvenire prova a spiegarlo così: «Ci siamo dimenticati che non si possono importare braccia, o scegliere politiche che giocano con il fuoco del sentimento, pericolose scorciatoie identitarie». Fa due esempi: il “boomerang morale” con cui i governi europei stanno rendendo sempre più difficile il ricongiungimento familiare e la diffusione degli slogan sulla “remigrazione”, rimandare indietro tutti, indistintamente. «Ma lo slogan – dice Girardo – non regge alla realtà: fabbisogni diffusi in edilizia, agricoltura, ristorazione, cura, milioni di occupati stranieri che tengono insieme famiglie e filiere». E le parole non sono mai innocue: scavano steccati, autorizzano disprezzo, talvolta violenza.
Tornano nel panel, moderato da Marco Damilano, diversi esempi di questa disumanizzazione, come il Memorandum del 2017 in rinnovo proprio in questi giorni – «inaccettabile” per il direttore di Avvenire – con cui l’Italia affida il respingimento dei migranti alle autorità libiche spesso colluse con i trafficanti di uomini; il Piano Ruanda del governo britannico, il tentativo di svuotare Gaza dai discendenti dai “profughi del 1948” e l’assurdo progetto della Riviera. Come è tipico dell’incontro interreligioso di Sant’Egidio, il panel racconta al tempo stesso la geografia della disperazione e la geografia della speranza. Khadija Benguenna, giornalista di Al Jazeera, racconta il suo essere stata profuga in Svizzera quando il terrorismo fece in Algeria 250mila vittime nei “dieci anni d’inferno” tra il 1992 e 2002, e ha poi portato l’attenzione sulla situazione in Palestina. Padre Alejandro Solalinde di Hermanos en el Camino (Fratelli in cammino) è invece il simbolo dell’aiuto ai migranti in Messico. I cartelli del narcotraffico lo hanno picchiato, minacciato e organizzato attentati al suo rifugio per migranti di Ixtepec. In un’occasione le autorità municipali lo informarono che se non chiudeva il centro entro 48 ore, lo avrebbero bruciato. Ma anche quando si scoprì che un killer era stato pagato per ammazzarlo, ha scelto di non tacere. A Roma accusa la politica aggressiva e “aporofobica” – di odio verso i poveri – di Trump di destabilizzare diversi paesi latinoamericani e sottolinea: «Nelle ultime settimane sono riapparse anche nuove carovane di migranti provenienti da Venezuela, Cuba, Honduras, Colombia e altri paesi verso il nord».
Al tempo della disumanizzazione dei migranti, le tradizioni religiose possono sostenere uno sguardo umanizzante, come dice il pastore metodista Leslie Griffiths, parlamentare e rappresentante britannico alla Corte europea dei diritti umani. Per Girardo «la tradizione viva della Chiesa non offre un sentimentalismo, ma una grammatica dell’umano. Non per buonismo: per realismo evangelico». È la linea che Papa Francesco riassumeva nei quattro verbi – accogliere, proteggere, promuovere, integrare – per indicare la responsabilità ecclesiale e civile. E Leone XIV, nell’Esortazione apostolica Dilexi te, ricorda che «nei poveri il Signore ha ancora qualcosa da dirci»: non sono un problema da gestire, ma “compagni di strada” che rivelano la verità del nostro vivere sociale e la misura della nostra democrazia. «Questa – conclude il direttore del quotidiano della Cei – è la conversione dello sguardo: dalle categorie ai volti, dai volti alle responsabilità».



