L’Italia degli asili nido è un universo a macchia di leopardo, spezzato tra Nord e Sud per capacità di soddisfare la domanda e, ancor di più, per livelli di tariffe: lo rivela l’indagine dell’Osservatorio Prezzi&Famiglie di Cittadinanzattiva (www.cittadinanzattiva.it/primo-piano/consumatori/4210-cittadinanzattiva-indagine-2012-sugli-asili-nido-comunali.html) che ha censito i 3.623 nidi comunali presenti nel Paese.
La retta dell’asilo non è – neanche lontanamente - uguale per tutti: se mandare al nido il proprio bambino costa mediamente 302 euro mensili (si fa riferimento al tempo pieno), per un totale di oltre 3mila euro l’anno, i minimi e i massimi aprono una forbice enorme, anche tra provincia e provincia.
Ad esempio, a Lecco la spesa per la retta mensile, di 547 €, è sette volte più cara rispetto a Catanzaro (70 €), il triplo rispetto a Roma (146 €) e più che doppia rispetto a Milano (232 €). In Veneto, la retta più cara, in vigore a Belluno (525 €) supera di 316 € la più economica registrata a Venezia. Analogamente nel Lazio la retta che si paga a Viterbo (396 €) supera di 250 € la più economica registrata a Roma. Oltre a questo, nell’ultimo biennio ben 39 città hanno ritoccato all’insù le tariffe, con il top registrato a Bologna che ha aumentato le rette quasi del 30%.
Ed ecco le dieci città più care rispetto alle rette mensili: si tratta di Lecco, Belluno, Sondrio, Bergamo, Mantova, Cuneo, Lucca, Pisa, Bolzano e Udine, che presentano tariffe da 547 a 424 euro al mese. Le dieci città più economiche, invece, sono Catanzaro, Vibo Valentia, Cagliari, Roma, Reggio Calabria, Chieti, Venezia, Salerno, Rovigo e Macerata, con un “range” di tariffe che va dai 70 ai 220 euro mensili.
Ma se il Nord d’Italia è decisamente più costoso del Sud, allo stesso tempo è la zona del Paese che ha fatto i maggiori passi avanti nell’incrementare l’offerta pubblica di servizi per l’infanzia: basti pensare che il 60% degli asili nido è concentrato nelle regioni settentrionali, il 27% al Centro e solo il 13% al Sud.
L’obiettivo comunitario fissato nell’Agenda di Lisbona, che fissa al 33% la copertura minima di posti al nido, è ancora lontano dall’essere raggiunto in tutta Italia, dove la media (rispetto all’utenza potenziale dei bambini da 0 a 3 anni) è del 6,5%. Il risultato è che attualmente oltre il 23% dei bambini iscritti ai bandi dei nidi comunali rimane in lista d’attesa, con punte di esclusione ancora più alte in Calabria, Campania e Sicilia.
«Ancora oggi manca nel nostro Paese un sistema di servizi per l’infanzia equamente diffuso ed accessibile su tutto il territorio e adeguate agevolazioni fiscali a sostegno dei nuclei familiari con bambini piccoli», commenta Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva. «Le misure a favore di tali servizi rappresentano un investimento intergenerazionale che produce effetti nel lungo periodo e quindi di scarso “appeal” per una classe politica poco lungimirante e concentrata sul consenso immediato. D’altro canto la riduzione delle risorse a disposizione degli enti locali e la rigidità del patto di stabilità non aiutano a far ripartire gli investimenti in tal senso anzi contribuiscono a tagliare sempre di più le risorse destinate alla spesa sociale. Di questo passo difficilmente riusciremo a colmare il gap nei confronti dell’Europa e centrare la copertura del servizio del 33% già prevista per il 2010».
Alcune amministrazioni si stanno impegnando per andare in controtendenza: il comune di Roma ha recentemente prorogato di due mesi, fino al 31 gennaio 2013, i termini per presentare la domanda per i voucher di rimborso a favore dei bambini rimasti in lista d’attesa e iscritti a nidi privati autorizzati. «In più abbiamo scelto di aumentare la soglia massima dell’ISEE, da 25mila a 35mila euro, così da consentire a più famiglie di presentare la domanda per il contributo economico, da quest’anno finanziato direttamente da Roma Capitale», ha dichiarato l’assessore alla Famiglia, all’Educazione e ai Giovani Gianluigi De Palo, ricordando che per i voucher l’Amministrazione Capitolina mette a disposizione 1.241.000 euro, con un massimo di 1000 euro a bambino.
L’esclusione dal nido pubblico scatena spesso nella famiglia l’affannosa ricerca di un’alternativa nel settore privato, tentando di conciliare costi (mediamente più elevati) e standard ottimali di accoglienza e approccio psicopedagogico.
In questi anni si è sviluppata una vera fioritura di franchising privati, che dichiarano di non conoscere crisi (il Pianeta dei Bambini, ad esempio, nel 2012 ha aperto 12 nuovi asili).
Ma la vera alternativa al pubblico, in termini di numeri e diffusione territoriale è costituita dai nidi del privato sociale, le cooperative ed i consorzi che entrano nel mercato dei beni comuni senza l’ambizione di fare business ma con uno spirito di servizio nei confronti della comunità che “fa la differenza sia in termini di qualità sia in termini di sostenibilità del servizio”, spiega Claudia Fiaschi, vicepresidente del Consorzio Pan - Servizi per l’infanzia (www.consorziopan.it), consorzio senza fini di lucro per la creazione di asili nidi e strutture per l’infanzia su tutto il territorio nazionale, che conta circa 400 strutture a marchio Pan.
«I servizi per l’infanzia del privato sociale hanno ancora un buon appeal, grazie a standard molto elevati e ai costi che non sono distanti dall’offerta pubblica, in chiave Isee, delle regioni del Nord», prosegue la Fiaschi. «In questi ultimi tempi registriamo però una sofferenza finanziaria sempre più acuta da parte delle famiglie, che non solo devono farsi carico delle esigenze di accudimento dei più piccoli, ma anche dei bisogni di cura degli altri figli e degli anziani presenti in casa».
Per quanto riguarda la spaccatura tra Nord e Sud, la vicepresidente del Consorzio Pan prende atto di una sfida ancora tutta da giocare: «E’ vero che la rete dei servizi all’infanzia nel Meridione è più esigua, perché il modello di cura familiare dei bambini vede un maggior numero di donne casalinghe. Ma questa mancanza di alternative provoca non pochi riflessi negativi: ad esempio, sui tassi di occupazione femminile».
La retta dell’asilo non è – neanche lontanamente - uguale per tutti: se mandare al nido il proprio bambino costa mediamente 302 euro mensili (si fa riferimento al tempo pieno), per un totale di oltre 3mila euro l’anno, i minimi e i massimi aprono una forbice enorme, anche tra provincia e provincia.
Ad esempio, a Lecco la spesa per la retta mensile, di 547 €, è sette volte più cara rispetto a Catanzaro (70 €), il triplo rispetto a Roma (146 €) e più che doppia rispetto a Milano (232 €). In Veneto, la retta più cara, in vigore a Belluno (525 €) supera di 316 € la più economica registrata a Venezia. Analogamente nel Lazio la retta che si paga a Viterbo (396 €) supera di 250 € la più economica registrata a Roma. Oltre a questo, nell’ultimo biennio ben 39 città hanno ritoccato all’insù le tariffe, con il top registrato a Bologna che ha aumentato le rette quasi del 30%.
Ed ecco le dieci città più care rispetto alle rette mensili: si tratta di Lecco, Belluno, Sondrio, Bergamo, Mantova, Cuneo, Lucca, Pisa, Bolzano e Udine, che presentano tariffe da 547 a 424 euro al mese. Le dieci città più economiche, invece, sono Catanzaro, Vibo Valentia, Cagliari, Roma, Reggio Calabria, Chieti, Venezia, Salerno, Rovigo e Macerata, con un “range” di tariffe che va dai 70 ai 220 euro mensili.
Ma se il Nord d’Italia è decisamente più costoso del Sud, allo stesso tempo è la zona del Paese che ha fatto i maggiori passi avanti nell’incrementare l’offerta pubblica di servizi per l’infanzia: basti pensare che il 60% degli asili nido è concentrato nelle regioni settentrionali, il 27% al Centro e solo il 13% al Sud.
L’obiettivo comunitario fissato nell’Agenda di Lisbona, che fissa al 33% la copertura minima di posti al nido, è ancora lontano dall’essere raggiunto in tutta Italia, dove la media (rispetto all’utenza potenziale dei bambini da 0 a 3 anni) è del 6,5%. Il risultato è che attualmente oltre il 23% dei bambini iscritti ai bandi dei nidi comunali rimane in lista d’attesa, con punte di esclusione ancora più alte in Calabria, Campania e Sicilia.
«Ancora oggi manca nel nostro Paese un sistema di servizi per l’infanzia equamente diffuso ed accessibile su tutto il territorio e adeguate agevolazioni fiscali a sostegno dei nuclei familiari con bambini piccoli», commenta Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva. «Le misure a favore di tali servizi rappresentano un investimento intergenerazionale che produce effetti nel lungo periodo e quindi di scarso “appeal” per una classe politica poco lungimirante e concentrata sul consenso immediato. D’altro canto la riduzione delle risorse a disposizione degli enti locali e la rigidità del patto di stabilità non aiutano a far ripartire gli investimenti in tal senso anzi contribuiscono a tagliare sempre di più le risorse destinate alla spesa sociale. Di questo passo difficilmente riusciremo a colmare il gap nei confronti dell’Europa e centrare la copertura del servizio del 33% già prevista per il 2010».
Alcune amministrazioni si stanno impegnando per andare in controtendenza: il comune di Roma ha recentemente prorogato di due mesi, fino al 31 gennaio 2013, i termini per presentare la domanda per i voucher di rimborso a favore dei bambini rimasti in lista d’attesa e iscritti a nidi privati autorizzati. «In più abbiamo scelto di aumentare la soglia massima dell’ISEE, da 25mila a 35mila euro, così da consentire a più famiglie di presentare la domanda per il contributo economico, da quest’anno finanziato direttamente da Roma Capitale», ha dichiarato l’assessore alla Famiglia, all’Educazione e ai Giovani Gianluigi De Palo, ricordando che per i voucher l’Amministrazione Capitolina mette a disposizione 1.241.000 euro, con un massimo di 1000 euro a bambino.
L’esclusione dal nido pubblico scatena spesso nella famiglia l’affannosa ricerca di un’alternativa nel settore privato, tentando di conciliare costi (mediamente più elevati) e standard ottimali di accoglienza e approccio psicopedagogico.
In questi anni si è sviluppata una vera fioritura di franchising privati, che dichiarano di non conoscere crisi (il Pianeta dei Bambini, ad esempio, nel 2012 ha aperto 12 nuovi asili).
Ma la vera alternativa al pubblico, in termini di numeri e diffusione territoriale è costituita dai nidi del privato sociale, le cooperative ed i consorzi che entrano nel mercato dei beni comuni senza l’ambizione di fare business ma con uno spirito di servizio nei confronti della comunità che “fa la differenza sia in termini di qualità sia in termini di sostenibilità del servizio”, spiega Claudia Fiaschi, vicepresidente del Consorzio Pan - Servizi per l’infanzia (www.consorziopan.it), consorzio senza fini di lucro per la creazione di asili nidi e strutture per l’infanzia su tutto il territorio nazionale, che conta circa 400 strutture a marchio Pan.
«I servizi per l’infanzia del privato sociale hanno ancora un buon appeal, grazie a standard molto elevati e ai costi che non sono distanti dall’offerta pubblica, in chiave Isee, delle regioni del Nord», prosegue la Fiaschi. «In questi ultimi tempi registriamo però una sofferenza finanziaria sempre più acuta da parte delle famiglie, che non solo devono farsi carico delle esigenze di accudimento dei più piccoli, ma anche dei bisogni di cura degli altri figli e degli anziani presenti in casa».
Per quanto riguarda la spaccatura tra Nord e Sud, la vicepresidente del Consorzio Pan prende atto di una sfida ancora tutta da giocare: «E’ vero che la rete dei servizi all’infanzia nel Meridione è più esigua, perché il modello di cura familiare dei bambini vede un maggior numero di donne casalinghe. Ma questa mancanza di alternative provoca non pochi riflessi negativi: ad esempio, sui tassi di occupazione femminile».


