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L’idea era questa: attraversare la Calabria da nord a sud su ruote. Niente di straordinario, se fatto con le forze – fisiche e mentali – di un ragazzo qualunque di 27 anni che compie un’impresa sportiva dopo un allenamento adeguato. Ma noi stiamo parlando d’altro: le ruote sono quelle di una handbike elettrificata, costruita apposta per chi la guida. E il ragazzo non è un tipo qualunque: si chiama Salvatore Cristiano Misasi (ma tutti lo chiamano solo Cristiano), calabrese, che sin da piccolo è affetto da tetraparesi spastica, una forma di paralisi cerebrale che colpisce la muscolatura volontaria degli arti, portando a deficit nella sensibilità e nel controllo motorio. Cristiano c’è riuscito, ha da poco terminato l’impresa che sognava: attraversare la sua regione superando ogni tipo di limite e di fatica, per dimostrare a tutti che un mondo senza barriere non solo non è impossibile, ma sarebbe di gran lunga migliore.


Sulle orme dei briganti
L’impresa non è stata da poco: 545 chilometri, percorsi in 12 tappe, attraverso i parchi nazionali del Pollino e della Sila, il Parco naturale regionale delle Serre e il Parco nazionale dell’Aspromonte. Partito da Laino Borgo, Cristiano ha attraversato in 12 giorni il territorio calabro in passato battuto dai briganti e abitato dai lupi, tanto da battezzare la sua avventura “Il brigante in handbike”. L’arrivo sul lungomare di Reggio Calabria ha segnato una vittoria, contro se stesso e contro la disabilità.
«Il mio è stato un viaggio sociale, che mi ha dato la possibilità di uscire dalla mia zona di comfort e alzare l’asticella dei limiti con cui mi scontro ogni giorno», commenta Cristiano, «dimostrando a tutti – disabili e non – che la vita è sempre degna di essere vissuta, anche una vita come la mia, piena di difficoltà». Il “brigante” calabrese è un B.Liver, cioè un membro della community di Fondazione Bullone, promotrice dell’iniziativa, ente non profit che accompagna adolescenti e giovani adulti con patologie importanti alla riscoperta della propria identità oltre la malattia, aiutandoli a reinserirsi nella vita sociale e professionale.
Inoltre l’impresa è stata supportata dal Gruppo Barilla, con il patrocinio di Regione Calabria, Comitato Italiano Paralimpico e Coni – sezione regionale, Città Metropolitana di Reggio Calabria, Federparchi e Ciclovia Parchi Calabria.


L’ispirazione da due amici speciali
L’idea di questo viaggio nasce da un incontro, nel 2018. Quello con Alessandro e Federico Villa, due fratelli entrambi affetti da atassia di Friedreich, una malattia neurodegenerativa rara, che hanno fatto dello sport la loro vita e arma di riscatto sociale. Grazie alla “Piccoli Diavoli 3Ruote” (la onlus sportiva dilettantistica di Handcycling che hanno fondato, di cui fanno parte atleti diversamente abili e normodotati) hanno compiuto viaggi straordinari in Canada, Colombia, Messico e altri Paesi. «Conoscere Alessandro e Federico mi ha cambiato la vita», racconta Cristiano. «Mi hanno “adottato” come un fratellino minore, aiutandomi ad avere una maturità diversa nei confronti della vita, insegnandomi a essere più autonomo non solo all’esterno, ma anche in casa nelle attività quotidiane. Insomma, mi hanno fatto capire che potevo essere “figo” anche se in sedia a rotelle». E poi è scattata la scintilla. «Guardando il documentario del viaggio in handbike di Alessandro - da New Orleans a Memphis negli Stati Uniti nel 2007 - ho sentito che era il momento di buttarmi in un’avventura tutta mia e che potevo farcela», dice Cristiano, che ancora oggi, quando è giù di corda, ci confida di guardare quelle immagini e ritrovare il sorriso.


Una handbike personalizzata
La preparazione del viaggio attraverso la Calabria è stata lunga e complessa. «In pratica da due handbike ne ho creata una. Un prototipo, adattato alle mie esigenze», spiega il “brigante”. «Da un modello ho preso il motore elettrico (indispensabile per superare i dislivelli), del secondo invece ho utilizzato l’impianto frenante e i sistemi di sicurezza, per rendere l’andatura più fluida e la handbike più competitiva». Una sfida che ha comportato fatiche non indifferenti, dal punto di vista psicologico e fisico.
«Dal punto di vista mentale», prosegue Cristiano, «lo sforzo più grande è stato quello di fare il possibile per arrivare alla partenza, il 1° giugno, senza trascurare alcun dettaglio, perché fossi nelle condizioni di gestire qualsiasi imprevisto. Dal lato fisico, oltre all’allenamento precedente – alla cyclette e alle parallele – durante il viaggio l’ostacolo più grande è stato il caldo, specialmente nei lunghi tratti in pianura. Ci sono stati momenti in cui mi si chiudevano gli occhi per lo sforzo, ma ho tenuto duro cercando di gestire al meglio le energie e concentrando il maggior numero di chilometri al mattino e una porzione minore nel pomeriggio, quando ero più stanco». Stiamo parlando di 545 km, con un dislivello positivo di 10.240 metri e negativo di 10.510, l'altitudine massima raggiunta è 1.565 metri in prossimità del Lago Arvo nel Parco della Sila: ogni tappa comprendeva circa 56 km e pochissimi sono stati su pista ciclabile, la maggior parte era su strade provinciali anche se poco trafficate.
E per tutta questa strada Cristiano ha avuto al seguito la sua fedele compagna, la sedia a rotelle, trainata dalla handbike. «È stata un supporto importante, non soltanto per le soste, ma anche perché nelle strade strette e nei dislivelli più impervi era l’unico mezzo che riusciva a passare, perché il camper del team al mio seguito era troppo ingombrante. Inoltre l’ho utilizzata per trasportare piccoli pezzi di ricambio, che mi hanno permesso di fare alcune riparazioni rapide lungo il percorso».


Gli ultimi chilometri con l’amico Alessandro
Tutto il viaggio è stato una catena di emozioni, ma l’arrivo a Reggio Calabria ha reso l’impresa indimenticabile. «Sul lungomare ad aspettarmi c’era Alessandro: ho agganciato la sua sedia a rotelle alla mia handbike e abbiamo percorso insieme l’ultimo tratto fino al traguardo. È stato un tributo a lui, glielo dovevo. Lui mi ha ispirato e senza il suo coraggio e la sua determinazione non sarei mai arrivato fin qui», dice commosso Cristiano. «È stato anche un omaggio alla mia terra, dura e bellissima, alla quale ho voluto restituire il calore e l’affetto ricevuti fino ad ora».


La scrittura come nuova dimensione di vita
Prima di questo traguardo sportivo, Cristiano aveva raggiunto altri risultati importanti: il liceo scientifico, gli studi universitari di Giurisprudenza e poi il lavoro, che oggi lo rende appagato. «L’ho tanto cercata e alla fine l’ho trovata: la mia dimensione è la scrittura. Riesce a far emergere la parte di me più profonda e ciò avviene in modo semplice, senza fatica», prosegue. «Sulla carta posso esprimere quello che sento senza incespicare sulle parole, senza fermarmi a prendere fiato, rispettando tempi e modi che sono solo miei. La scrittura mi ha salvato, facendomi capire che posso fare molto per gli altri, ma prima di tutto per me stesso». E così da alcuni anni il ragazzo calabrese collabora come redattore con Fondazione Bullone, impegnato nella stesura della newsletter Barilla, mensile dedicato all’inclusione, facendo del racconto e della narrazione uno strumento di condivisione e riscatto, al servizio di coloro che cercano ancora la propria strada e il proprio spazio nella società.


Il dialogo amichevole con Dio
«Penso che Dio non mi abbandoni mai, anche se a volte mi arrabbio con Lui», dice Cristiano a proposito della sua fede. «Abbiamo un rapporto strano, quasi “umano”, perché quando prego gli parlo come facevo con mio padre. Un confronto amichevole, diretto e sincero, senza omissioni. Da mio padre ho imparato a parlare con gli altri nel rispetto dell’interlocutore, e così mi comporto anche quando prego: sono… conversazioni accese a volte, ma sempre costruttive». La visione del mondo e della vita cambia parecchio se sei costretto su una carrozzina, aprendo voragini di tristezza e disperazione non sempre facili da gestire e accettare, suscitando inquietudini e domande che rischiano di restare senza risposta. Cristiano le risposte le ha trovate.
«Credo che Dio mi abbia messo di fronte a prove molto dure da superare, ma penso lo abbia fatto per avvicinarmi a Lui. Se le cose ci vanno sempre bene - diciamo la verità - raramente sentiamo il bisogno di Dio. Non è giusto ma è così. Ho imparato a combattere le mie battaglie con la consapevolezza che in quello che faccio ci sia un disegno, e la fede è una forza in più – quella che non ho nelle gambe e nelle braccia - che mi aiuta a non arrendermi e proseguire per la mia strada, andando sempre oltre».
Foto © Alessandro Beltrame



