«Vogliamo vivere» è la richiesta di Amina, 15 anni, palestinese di Gaza. La sua voce attraversa il blackout e le esplosioni fino a a Gaia, 29 anni, aquillana, dottoranda in etica della robotica di Pisa e divulgatrice di filosofia della scienza. Amina era una studentessa liceale, ma ha dovuto interrompere gli studi dopo che i bombardamenti israeliani hanno distrutto la sua scuola e l’80% delle infrastrutture di Gaza. Da circa un anno le due ragazze si sentono regolarmente, quando l’elettricità lo consente. L’amicizia cresce e Amina trova il coraggio di documentare la propria quotidianità in video: il suo modo di chiedere che l’Occidente guardi ciò che sta accadendo lì, a lei e alla sua gente. Gaia racconta: «Mi sono esposta più volte sulla questione palestinese e Amina mi ha trovato così, nello spazio dei social.

Durante le videochiamate mi ha fatto conoscere il suo mondo devastato dai bombardamenti, mentre io le mostravo il mio, lontano da quell’orrore. Spesso ho sentito il rumore dei droni e delle esplosioni mentre parlavamo al cellulare. Lei mi ha portato nel suo incubo, io vorrei portarla nel mio sogno, che sa di pace». I bambini e i ragazzi dovrebbero fare i bambini e i ragazzi. A Gaza, invece, diventano giornalisti. Dove ai cronisti indipendenti non è consentito entrare, restano influencer pronti a trasformare la propaganda in informazione. Così, quando una ragazzina racconta cosa accade sotto le bombe, quel messaggio diventa reportage, quella voce testimonianza. E allora capiamo quanto sia atroce il silenzio del mondo: se a informare non sono i professionisti, ma i bambini o poco più, che non dovrebbero nemmeno sapere cos’è una guerra. «Vogliamo continuare a vivere e questo non è chiedere troppo» è l’appello della gente di Gaza, nella voce di Amina.