Con la scomparsa di Goffredo Fofi, morto a Roma l'11 luglio 2025 all'età di 88 anni (in seguito alle complicanze di una caduta che gli era costata la rottura del femore), perdiamo forse l'ultimo degli intellettuali novecenteschi, quegli uomini di cultura, cioè, che dal secondo dopoguerra in poi avevano fatto dell'impegno militante il fulcro del proprio lavoro. Un impegno spesso collocato a sinistra, in àmbito marxista, ma che nel caso di Fofi aveva saputo dialogare fecondamente con i settori più aperti del mondo cattolico. Di carattere talora burbero e spigoloso, ma sempre franco e diretto, Fofi ha rappresentato un'acuta coscienza critica del nostro presente.

Nato a Gubbio (Perugia) nel 1937, Goffredo Fofi è stato critico cinematografico e letterario. Il suo percorso comincia negli anni '50 e '60 in campo pedagogico e sociale. Collabora con l'esperienza di Danilo Dolci in Sicilia e si occupa del fenomeno dell’immigrazione interna, pubblicando nel 1964 (da Feltrinelli, dopo il rifiuto di Einaudi) uno studio pionieristico: L’immigrazione meridionale a Torino. È vicino ad Aldo Capitini e alle sue posizioni a favore della pace e della non violenza.

Dopo aver fatto nascere, con Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, i Quaderni piacentini (la rivista della sinistra dissidente), nel 1983 Fofi apre a Milano il bimestrale, poi mensile, Linea d'ombra e nel 1997 fonda e dirige il mensile di arte, cultura e società Lo straniero.

L'interesse di Fofi per il cinema nasce, oltre che da una personale passione, dalla convinzione che attraverso la settima arte si possa comprendere e studiare la società: da qui la sua attenzione ad alcuni volti iconici del cinema italiano, come Totò e Alberto Sordi, che con le maschere da essi interpretate hanno messo a fuoco vizi, difetti e debolezze del nostro carattere nazionale.

Scriveva Fofi nel 2004 nel volume Alberto Sordi. L’Italia in bianco e nero (Mondadori):
«Si può odiare "il personaggio Sordi" per ciò che ha messo in luce di noi tutti, oppure, e forse dicendo questo ci si illude, di quasi tutti. Si può amarlo, per gli stessi motivi. Non si può studiarlo, e certamente io non ci riesco, come se non ci chiamasse in causa. Come se non ci costringesse oggi, a distanza, e più fortemente e immediatamente ieri e ier l’altro, a formulare un giudizio sul nostro cinema, sulla nostra storia e, come da qualche anno si è ripreso a dire e a studiare dopo decenni di silenzio, sul "carattere degli italiani". Su Sordi medesimo, anche, ma questo è facile farlo; sulle qualità specifiche dell’attore, e anche questo non è difficile. È "l’oltre" e "l’intorno" che ci stimolano, provocano, preoccupano. È l’Italia».

Anche nella letteratura Fofi ha visto una straordinaria risorsa per indagare volti e luoghi del nostro vissuto nazionale. In un saggio del 2020, dal titolo Le cento città. L'apporto delle regioni alla storia della nostra letteratura dall'Unità a oggi (Edizioni E/O), Fofi puntava l'attenzione su Roma e Milano, notando come questi due centri siano stati spesso raccontati da "immigrati": per esempio, il friulano Pier Paolo Pasolini e il toscano Aldo Palazzeschi per Roma, il siciliano Elio Vittorini e il toscano Luciano Bianciardi per Milano. E per quanto riguarda il presente l'autore sosteneva la tesi di una maggiore vitalità della provincia rispetto al centro:
«Si è assistito negli ultimi anni e si assiste tuttora a un doppio processo: di omologazione, proposta e imposta dal centro (che non è solo Roma o Milano: è Bruxelles ed è Wall Street) e di resistenza e movimento nelle periferie».

Resistenza era una parola chiave del suo vocabolario: non solo la Resistenza storica (quella al nazifascismo), momento fondativo dell'Italia democratica e repubblicana, ma, in senso più ampio, la necessità di preservare la nostra umanità e i suoi valori più autentici contro tutti quei sistemi di potere che rischiano di privarci della nostra libertà.