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Qualcuno ricorderà il comico Pino Caruso quando, tra gli anni Sessanta e Settanta, entrava in scena con un vestito a righe da galeotto, con tanto di cappellino in testa, e cantava, sussurrando perfido: «Venga a prendere il caffè da noi, Ucciardone cella 26». Un invito da brivido, soprattutto perché a molti italiani tornava alla mente la morte di Gaspare Pisciotta, il “luogotenente” di Salvatore Giuliano, il bandito Giuliano, il re di Montelepre, il separatista Giuliano, quello che con la sua banda era diventato tristemente famoso anche – ma non solo – per la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1° maggio 1947.
Pisciotta, il 9 febbraio 1954, si trova in carcere, condannato all’ergastolo e ai lavori forzati. Le forze di polizia lo hanno catturato dopo la morte di Giuliano, una morte misteriosa che fa scalpore in un’Italia ancora ingenua e scarsamente abituata agli intrighi di palazzo. Un’Italia che legge un titolo su L’Europeo, il titolo di un articolo a firma di Tommaso Besozzi, autore di un’inchiesta sul decesso del bandito più pericoloso della nazione. Quel titolo è come una valanga che piomba sull’Italia: «Di sicuro c’è solo che è morto». Cioè? E tutto il resto? E le dichiarazioni ufficiali, allora, che sarebbero? E la conclamata bravura delle forze dell’ordine? Tutte favole?
Pisciotta, poco tempo dopo viene arrestato. E in carcere lascia capire, lascia intendere. E al processo fa di più: parla, oh quanto parla, forse troppo. «Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa». Non viene preso molto sul serio, chissà se per convenienza, o forse perché questo è un Paese a suo modo manzoniano, e allora meglio sopire, troncare, troncare, sopire. Oppure, molto più semplicemente - ma sarebbe agghiacciante, vero? - perché di “trattative” tra Stato e mafia si dovrebbe iniziare a parlare fin da allora, dal dopoguerra.
Ma il risultato è che la scia di sospetti che il luogotenente di Giuliano lascia, resta senza soluzione. O, meglio, ce n’è una sola, la mattina del 9 febbraio 1954, giusto sessant’anni fa, quando Pisciotta, rinchiuso nel carcere palermitano dell’Ucciardone, ordina il solito caffè. E, oltre allo zucchero, mescola inconsapevolmente - in Sicilia direbbero “meschino” - della stricnina. Chi ce l’abbia messa, ovviamente, nell’Italia dei misteri che inizia a nascere alla grande, nessuno lo saprà mai, e non si sa neanche oggi.
Aveva ragione Besozzi a scrivere che l’unica certezza fosse la morte di Giuliano. E anche di Pisciotta, a distanza di 60 anni, si può dire: «Di certo, c’è solo che è morto».
Pisciotta, il 9 febbraio 1954, si trova in carcere, condannato all’ergastolo e ai lavori forzati. Le forze di polizia lo hanno catturato dopo la morte di Giuliano, una morte misteriosa che fa scalpore in un’Italia ancora ingenua e scarsamente abituata agli intrighi di palazzo. Un’Italia che legge un titolo su L’Europeo, il titolo di un articolo a firma di Tommaso Besozzi, autore di un’inchiesta sul decesso del bandito più pericoloso della nazione. Quel titolo è come una valanga che piomba sull’Italia: «Di sicuro c’è solo che è morto». Cioè? E tutto il resto? E le dichiarazioni ufficiali, allora, che sarebbero? E la conclamata bravura delle forze dell’ordine? Tutte favole?
Pisciotta, poco tempo dopo viene arrestato. E in carcere lascia capire, lascia intendere. E al processo fa di più: parla, oh quanto parla, forse troppo. «Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa». Non viene preso molto sul serio, chissà se per convenienza, o forse perché questo è un Paese a suo modo manzoniano, e allora meglio sopire, troncare, troncare, sopire. Oppure, molto più semplicemente - ma sarebbe agghiacciante, vero? - perché di “trattative” tra Stato e mafia si dovrebbe iniziare a parlare fin da allora, dal dopoguerra.
Ma il risultato è che la scia di sospetti che il luogotenente di Giuliano lascia, resta senza soluzione. O, meglio, ce n’è una sola, la mattina del 9 febbraio 1954, giusto sessant’anni fa, quando Pisciotta, rinchiuso nel carcere palermitano dell’Ucciardone, ordina il solito caffè. E, oltre allo zucchero, mescola inconsapevolmente - in Sicilia direbbero “meschino” - della stricnina. Chi ce l’abbia messa, ovviamente, nell’Italia dei misteri che inizia a nascere alla grande, nessuno lo saprà mai, e non si sa neanche oggi.
Aveva ragione Besozzi a scrivere che l’unica certezza fosse la morte di Giuliano. E anche di Pisciotta, a distanza di 60 anni, si può dire: «Di certo, c’è solo che è morto».



