Il Bel Espoir, “La Bella Speranza”, è più di una nave. È diventato un simbolo, un’odissea collettiva che ha saputo intrecciare il linguaggio dell’avventura con quello dello spirito, trasformando il Mediterraneo in un laboratorio vivente di pace. Per mesi ha solcato le onde, sostando nei porti delle diverse sponde, accogliendo giovani e comunità locali, incrociando lingue, tradizioni, fedi differenti. È stato un viaggio che non si è limitato a un periplo marittimo, ma che ha assunto il valore di un pellegrinaggio laico e interreligioso: una navigazione dell’anima, dove ogni scalo ha significato incontro, ascolto, riconoscimento.

Ora, mentre si compie la tappa conclusiva, l’ultima traversata che conduce da Napoli a Marsiglia, l’intera esperienza si raccoglie in una sintesi. Non un epilogo, ma una nuova soglia. Tutto ciò che è stato vissuto nei sette capitoli precedenti viene portato a bordo come memoria viva, per trasformarsi in impegno concreto e futuro condiviso. Le dinamiche decisive che sono emerse — il valore del dialogo, l’urgenza della pace, la responsabilità comune nella custodia della terra e dei popoli — si intrecciano ora in un unico messaggio, che gli attori e i partner di questa avventura vogliono consegnare al Mediterraneo e al mondo.

Ogni porto toccato è stato un tassello di un mosaico. A Barcellona e Tétouan si è respirata la forza del dialogo tra culture, ricordando che le differenze non sono minacce ma ricchezze. A Palermo e Bizerte la riflessione si è spostata sull’educazione e sulla società, rivelando come il futuro dei popoli si giochi nella capacità di offrire ai giovani strumenti per crescere liberi e responsabili. A Valletta e Chania le protagoniste sono state le donne, custodi di resilienza e coraggio, voci spesso taciute ma indispensabili per costruire comunità inclusive. A Nicosia e Jounieh l’attenzione si è rivolta al dialogo tra popoli e religioni, in contesti segnati da ferite ancora aperte, ma anche da straordinarie capacità di resistenza e convivenza.



Ad Istanbul e Atene il tema centrale è stato l’ambiente: il Mediterraneo come casa comune, fragile e preziosa, da difendere da egoismi e logiche predatorie. A Durrës e Trieste si è parlato di migrazioni, una delle grandi sfide del nostro tempo: non più masse anonime ma volti concreti, storie di uomini e donne che chiedono di essere riconosciuti e accolti con dignità. Infine Ravenna e Bari hanno ospitato il capitolo forse più simbolico: l’incontro tra cristiani d’Oriente e d’Occidente, la consapevolezza che le divisioni secolari possono essere superate da una fraternità più forte di ogni steccato.

Questi sette capitoli ora confluiscono nell’ottavo, che non è un semplice bilancio, ma un canto di speranza. Napoli e Marsiglia si fanno luoghi-simbolo di questa sintesi: due città portuali, aperte per natura, crocevia di popoli e culture. Qui la voce che si è alzata lungo tutto il viaggio si fa corale. Non più solo singole testimonianze, ma una proclamazione comune: la pace non è un’utopia, è un cammino che richiede coraggio, perseveranza, creatività.

Ad accompagnare questo itinerario è risuonata la preghiera che a Bari, al termine del settimo capitolo, l’arcivescovo Giuseppe Satriano ha consegnato come testamento spirituale del viaggio: «Frères et sœurs, chers jeunes, chers amis de différentes nations et traditions religieuses, ce soir nous nous retrouvons autour du don précieux de la prière … Aujourd’hui plus que jamais, nous avons besoin d’élever ensemble la voix vers le ciel». Non è una semplice invocazione, ma il gesto di chi riconosce che la pace non nasce soltanto dalle mani degli uomini, ma fiorisce là dove la responsabilità si apre al dono, e dove la diversità si trasfigura in comunione. Le parole della preghiera hanno messo in luce le contraddizioni del nostro tempo: guerre che si moltiplicano, diritti calpestati, mare trasformato in cimitero di speranze, indifferenza che pesa come un macigno. Ma allo stesso tempo hanno indicato un orizzonte: la pace come dono fragile, che ha bisogno di cuori coraggiosi pronti a custodirlo. Non è un bene privato, né un interesse particolare: è patrimonio comune che chiede custodi in ogni generazione.

L’odissea del Bel Espoir non si chiude con uno sbarco. Ogni approdo è stato una partenza. Così anche la tappa finale non rappresenta una conclusione, ma l’inizio di un cammino nuovo. Gli atti, i documenti, le riflessioni raccolte durante il viaggio saranno consegnati come base per un “libro bianco della pace”, un patrimonio di proposte e di alleanze che potrà alimentare reti di cooperazione tra università, associazioni, Chiese, comunità civili e istituzioni. Non un ricordo da archiviare, ma un seme da far germogliare. Il Mediterraneo, da sempre culla di civiltà e teatro di conflitti, si mostra ancora una volta come specchio della nostra umanità. Le sue acque non separano, ma uniscono. Le sue sponde, seppur diverse, si guardano negli occhi come sorelle. Le città portuali che hanno accolto il Bel Espoir ricordano a tutti che la vera sicurezza non nasce da muri o da difese armate, ma dalla capacità di conoscersi, stimarsi, collaborare.

Per questo l’ultima traversata assume i tratti di una parabola spirituale: non è solo la rotta tra due città, ma il simbolo di un cammino interiore, che chiede a ciascuno di noi di scegliere tra due logiche opposte. Da una parte, la difesa degli interessi particolari, la chiusura, il sospetto. Dall’altra, la cultura dell’incontro, della conoscenza reciproca, della fiducia. Il Bel Espoir, con la sua vela tesa al vento, diventa immagine di quest’ultima scelta: fragile ma forte, vulnerabile ma capace di resistere, proprio come la pace.

Alla fine, ciò che resta non è la cronaca di un itinerario, ma l’eco di un invito: alzare insieme la voce verso il cielo, con il coraggio di chi non si arrende, con la fiducia di chi sa che ogni incontro autentico lascia tracce indelebili. Il Mediterraneo, ancora una volta, si rivela non come confine, ma come grembo. Non come trincea, ma come culla. Non come luogo di conflitto, ma come frontiera di speranza.


Foto © Bel Espoir