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III
Roma dormiva. Uno vegliava, un Geta
gladïatore. Egli era nuovo, appena
giunto: il suo piede, bianco era di creta.
L’avean, col raffio, tratto dall’arena
del circo; e nello spolïario immondo
alcun nel collo gli aprì poi la vena.
Rantolava; il silenzio era profondo:
il cader lento d’una goccia rossa
solo restava del fragor del mondo.
Ma d’uomini gremita era la fossa
in cui giaceva. All’occhio suo, tra un velo,
parca scoprirne e ricoprirne l’ossa.
Ed era solo, e l’uomo che col gelo
lo pungea di sua cute, più lontano
gli era del più lontano astro del cielo:
più della terra sua, più del suo piano
lunghesso l’Istro, e de’ suoi bovi ch’ora
sdraiati ruminavano pian piano,
e de’ suoi figli ch’attendean l’aurora,
piccoli nella lor nomade cuna,
e del suo plaustro, ch’era sua dimora,
là fermo e nero al lume della luna.


IV
E venne bianco nella notte azzurra
un angelo dal Cielo di Giudea,
a nunzïar la pace: e la Suburra
non l’udiva: e nel tempio alto di Rhea
bandì la pace; e non alzò la testa
quell’uomo rosso ai piedi della Dea;
e vide un fuoco, e disse Pace; e Vesta
ardeva, e le Vestali al focolare
sedeano avvolte nella lor pretesta;
e vide un tempio aperto, e dal sogliare
mormorò, Pace: e non l’udì che il vento
che uscì gemendo e portò guerra al mare.
E l’angelo passò candido e lento
per i taciti trivi, e dicea, Pace
sopra la terra!... Udì forse un lamento...
Vegliava, il Geta... Entrò l’angelo: Pace
disse. E nella infinita urbe de’ forti
sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace.
Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti,
e i morti ai morti, e le tombe alle tombe
e non sapeano i sette colli assorti,
ciò che voi sapevate, o catacombe.



