Il disagio mentale non è a carico del solo paziente che ne soffre. Il suo peso viene condiviso con la famiglia. La comunità, invece, nonostante i progressi legislativi compiuti negli ultimi trent’anni, si mostra ancora restia ad accettare serenamente una simile condizione. Uno sguardo lucido e attuale aiuta a fare chiarezza.

Idisturbi psichici gravi rappresentano una categoria diagnostica che comprende diverse patologie caratterizzate da alterazioni del pensiero, della sfera emotiva e del comportamento, con conseguente riduzione significativa del funzionamento psicosociale in termini anche di disabilità. I soggetti affetti da tali disagi spesso devono affrontare molte difficoltà nello svolgimento delle attività della vita quotidiana e nelle relazioni interpersonali e familiari; inoltre, con una certa frequenza, si assiste alla progressiva incapacità, per questi individui, di mantenere un’attività lavorativa. Tale condizione si riflette sia sul piano della salute psico-fisica individuale sia su quello familiare, sia a livello socioeconomico. Sono patologie che si presentano con un’elevata frequenza nella popolazione generale e colpiscono tutte le fasce d’età. I dati epidemiologici evidenziano come in un anno tra il 20% e il 25% della popolazione generale si presenti almeno un disturbo psichiatrico clinicamente significativo. I risvolti conseguenti a tali episodi variano a seconda del disturbo psicopatologico: si passa da un impatto trascurabile, nelle malattie lievi, fino all’instaurarsi di veri e propri deficit nel funzionamento della vita quotidiana nei disturbi più gravi.

L’elevato grado di disabilità si riflette e pesa sul paziente, sui suoi familiari e sulla collettività. Le persone coinvolte, sia i soggetti affetti sia i familiari, sono spesso impreparati alla gestione effettiva della malattia. Alcuni studi testimoniano come gli oneri collegati ai disturbi mentali siano maggiori rispetto a quelli determinati da malattie fisiche come il diabete e le patologie cardiache, renali e polmonari. Il sostegno sociale, così come l’intervento fornito dagli specialisti, risulta drasticamente ridotto rispetto alle condizioni dettate da problematiche di natura organica (il fenomeno è meglio noto con l’espressione sintetica: family burden).

Le persone affette da disagio psichico, come anche i propri familiari, sono soggetti ad atteggiamenti particolari adottati dalla comunità. Spesso si assiste a reazioni di allontanamento, probabilmente dettate dalla percezione di minaccia. Uno dei pregiudizi più comuni è quello della pericolosità sociale: l’individuo malato di mente è temuto dalla collettività in quanto può mettere in atto comportamenti auto ed eteroaggressivi. Spesso si assiste a una vera e propria esclusione sociale in cui il soggetto malato viene stigmatizzato, cioè porta con sé un marchio di discredito e di vergogna. Lo stigma è un fenomeno che coinvolge anche le famiglie e tutte le figure di riferimento che si occupano dell’individuo stesso. C’è una ridotta accettazione del disturbo mentale da parte della società rispetto ai disturbi fisici. Ciò comporta per il paziente, che già sperimenta la sofferenza legata alla malattia, ulteriori disagi, quali, per esempio, la riduzione della qualità della vita e le opportunità lavorative e abitative piuttosto limitate, associate a una più bassa autostima.

Le modifiche legislative avvenute negli ultimi quarant’anni testimoniano la lenta, ma continua, modifica del “pensiero collettivo” che abbandona, seppur a fatica, la concezione, probabilmente dettata dal timore, di tenere lontano e isolato il malato di mente dalla società a favore di un processo di integrazione all’interno della collettività. È con queste riforme che è stata sancita la necessità che il luogo di cura non debba essere un ambiente chiuso bensì il territorio stesso.
Il disagio mentale si presenta con segni e sintomi molto differenti a seconda della patologia di cui il soggetto soffre. Nonostante ciò i familiari di questi pazienti, qualunque sia la diagnosi psichiatrica, riportano esperienze di vissuti simili. Il comportamento dei caregiver presenta, dunque, delle analogie. Durante l’esordio di una malattia psichiatrica, i parenti tendono inizialmente, con una certa frequenza, a reagire con una negazione dell’accaduto, ignorando cioè la gravità della situazione. Si assiste alla sopravvalutazione della capacità del soggetto malato di controllare i propri sintomi e la propria disabilità, favorendo così la frustrazione e i conseguenti atteggiamenti critici rivolti verso lo stesso da parte dei familiari. Inoltre la fase acuta, in cui spesso vi è necessità di un ricovero, è caratterizzata da sentimenti di preoccupazione e allerta da parte dei familiari.

Il ripristino di un compenso psicofisico e il rientro nella propria abitazione a beneficio dell’individuo malato, comportano una sensazione di sollievo all’interno della famiglia; a volte si assiste a un convincimento, da parte dei caregiver, che il corteo sintomatologico acuto non si verificherà mai più e che il soggetto sia guarito, o ancora che la causa della crisi sia da ascriversi a fattori diversi ed esterni che possono essere risolti e superati. La comprensione e l’accettazione della malattia psichica necessitano di tempo, ma spesso solo alcuni membri familiari le raggiungono. Diversi studi clinici evidenziano come coloro che si prendono cura dei pazienti psichiatrici subiscano influenze rispetto alla propria vita: si assiste a una riduzione del tempo impiegato per i propri interessi, alla comparsa di sconforto psicologico e allo sviluppo di sintomatologia ansiosodepressiva, all’alterazione del ritmo sonno-veglia con numerosi risvegli notturni per gestire situazioni di acuzie, alla difficoltà nel mantenere la propria vita di relazione con imbarazzo in luoghi pubblici e conseguente ritiro sociale. Si segnala, inoltre, la presenza di ripercussioni relazionali all’interno dello stesso nucleo familiare.

Sarebbe auspicabile che i caregiver si informassero il più possibile sulla malattia del proprio caro, leggendo materiali e documenti informativi attendibili e chiari, e parlando con professionisti della salute mentale che possono non solo aumentare le conoscenze sulla patologia ma anche fornire adeguate strategie di coping. È inoltre consigliata la ricerca di sostegno da parte di conoscenti e amici; qualora questo non fosse possibile, esistono dei gruppi di supporto e di auto-aiuto grazie ai quali è possibile confrontarsi con persone che stanno vivendo le medesime problematiche e che possono, quindi, ascoltare e fornire consigli.

Riconoscere i sintomi dell’esordio o della riacutizzazione del disturbo psichiatrico è un altro elemento che potrebbe favorire il decorso e il successivo ripristino del compenso. Il disagio manifestato può presentarsi con eventi di cui il familiare che si fa carico del paziente è il primo osservatore. Individuare precocemente l’instaurarsi della crisi può, quindi, influire sull’efficacia dell’intervento. Bisogna porre attenzione ad alterazioni del tono dell’umore quali protratta depressione, tristezza e/o irritabilità, percezione di un umore molto alto o molto basso e pensieri suicidari, ma anche ad alterazioni del contenuto e della forma del pensiero o delle senso-percezioni come la presenza di pensiero confuso, deliri e allucinazioni.

L’instaurarsi dell’acuzia può, inoltre, presentarsi con un progressivo aumento di sintomi ansiosi come eccessivi timori, preoccupazioni, numerosi disturbi fisici che non trovano un’eziologia organica. Altro sintomo frequente è il ritiro sociale, ma anche cambiamenti repentini nelle abitudini relative all’alimentazione o al sonno, o presenza di forti sentimenti di rabbia. Con il progredire della sintomatologia si può assistere a una progressiva incapacità a compiere i normali compiti della vita quotidiana e un’incapacità di far fronte ai problemi. Se la malattia psichiatrica colpisce soggetti adolescenti spesso si osservano anche condotte di abuso di sostanze, comportamenti antisociali, come furti o vandalismo, e scoppi di rabbia.
Se a essere affetto da disagio psichico è un genitore, questo può avere un impatto sia diretto sia indiretto sui figli. I bambini con un genitore affetto da schizofrenia hanno il 13% di rischio di sviluppare tale disturbo contro l’1% della popolazione generale, tale percentuale sale fino al 45% se la diagnosi interessa entrambi i genitori. Figli di bipolari hanno un rischio aumentato di sviluppare sia il disturbo bipolare sia la depressione unipolare; mentre figli di depressi possono presentare con maggiore incidenza disturbi depressivi ma non il bipolarismo. Ciò indica che i fattori genetici possono agire direttamente sulla comparsa della malattia.

Studi effettuati su animali, inoltre, hanno evidenziato che disordini emotivi e comportamentali di una donna in gravidanza possono causare una compromissione, sulla prole, dello sviluppo neurologico e cognitivo. L’ansia e la depressione materna nel periodo prenatale possono favorire il verificarsi di complicanze ostetriche, che possono a loro volta favorire lo sviluppo di gravi patologie psichiatriche come la schizofrenia. Se il disagio psichico persiste anche nel post partum il bambino è a contatto diretto con i sintomi della madre. Se questa è schizofrenica il figlio viene esposto a sintomi psicotici, inoltre è frequente una ridotta capacità di cura e un deficit nell’instaurare un rapporto affettivo con esso. L’interazione madre-bambino è alterata anche nella depressione severa. Sul versante socioeconomico, un’ulteriore conseguenza negativa sulla prole è costituita dalla maggiore entità di problemi economici cui queste famiglie tendono ad andare incontro: da una parte a causa del costo diretto delle cure e delle terapie, dall’altra a causa della ridotta capacità lavorativa dei genitori affetti.

Pensando alla patologia mentale severa, in genere si è portati a valutarla in termini di sintomi quali, per esempio, mania, depressione, psicosi. Per quanto tali manifestazioni morbose siano di per sé stesse invalidanti e fortemente negative per il soggetto, esse sono accompagnate da un largo corteo di inabilità sociali che, a lungo termine, possono avere conseguenze anche maggiori sulla qualità della vita. Molte persone, affette da disturbi quali schizofrenia o bipolarismo, vanno incontro a deficit cognitivi e delle capacità relazionali che interferiscono con il raggiungimento dei propri obiettivi di vita. Tali soggetti spesso non sono in grado di vivere da soli, di mantenere un lavoro e di sviluppare una relazione sentimentale a lungo termine. Si è portati a credere che tali incapacità dipendano essenzialmente dall’impatto che i sintomi mentali possono direttamente esercitare sul soggetto affetto. In realtà, la reazione della comunità al disagio psichico è una causa altrettanto importante della scarsa qualità di vita di questi pazienti e dei loro familiari.
La forza degli stereotipi L’opinione pubblica condivide una gran copia di stereotipi negativi sulla malattia mentale: “Questi soggetti sono pericolosi”, “Loro non possono vivere da soli”, “Non possono vivere tra noi”, “Devono essere tenuti lontano”, “Non vi è cura per i loro problemi”. Da tali stereotipi derivano delle convinzioni pessimistiche e non aderenti alla realtà che, in ultima analisi, portano all’effettiva discriminazione. I datori di lavoro, in genere, non assumono persone con una storia di ospedalizzazione psichiatrica; gli affittuari prediligono soggetti “sani di mente” cui affidare le loro proprietà; i vicini sono spaventati se, accanto alla loro abitazione, si trasferisce un malato mentale. Tali convinzioni tendono a essere molto radicate nella nostra società, al punto da coinvolgere non solo la popolazione generale ma anche gli stessi professionisti della patologia mentale. A scopo esemplificativo, potrebbe essere utile confrontare il decorso di due patologie croniche, una psichica e un’altra organica.

A - Nel primo caso esaminiamo la storia del signor Giovanni, affetto da schizofrenia. Egli ha ora 31 anni. L’esordio della patologia psichiatrica si è avuto a 19 anni. Da allora il signor Giovanni è andato incontro a due ospedalizzazioni durante acuzie psicotiche. Attualmente si reca mensilmente dal suo psichiatra curante e, grazie al supporto farmacologico e psicologico, si trova in una condizione di buon compenso psicofisico, che gli consente di lavorare a tempo pieno come commesso. L’indipendenza economica gli ha permesso di trovare un alloggio indipendente nel quartiere dove è nato e vissuto. Ciò gli consente di intrattenere relazioni amicali con persone che conosce da diversi anni e che frequenta regolarmente.

Una terza riacutizzazione dei sintomi porta Giovanni a un nuovo ricovero. Tale evento induce lo psichiatra curante e i familiari a ritenerlo troppo vulnerabile e non adatto a una vita autonoma. D’altro canto, sia il suo datore di lavoro sia il suo affittuario sono spaventati da questo evento. Alla fine viene deciso che, per tutelare il paziente, sia necessaria una sua istituzionalizzazione, in una struttura comunitaria del dipartimento di Salute Mentale, con conseguente perdita dell’autonomia lavorativa e abitativa e allontanamento dagli amici.

B - Nel secondo caso prendiamo in considerazione un individuo affetto da diabete mellito che chiameremo Carlo. Egli è affetto da una patologia che ha esordito all’età di 18 anni. Da allora il paziente ha dovuto modificare abitudini di vita e sottoporsi a controlli medici regolari. Nonostante queste limitazioni e l’onere di una terapia farmacologica complessa, è riuscito a costruirsi una vita indipendente e completa dal punto di vista economico, abitativo e relazionale. A 34 anni, un episodio di scompenso glicemico acuto lo costringe a un’ospedalizzazione. Dimesso, né l’internista curante né i familiari sono preoccupati della capacità del signor Carlo di riprendere in tutto e per tutto le attività della vita quotidiana.

Possiamo osservare che, dopo il ricovero ospedaliero, il signor Giovanni ha perso il lavoro, la casa e gli amici, mentre la situazione del signor Carlo è rimasta sostanzialmente immutata. Qual è la differenza? Entrambe le patologie hanno eziologia biologica, sono croniche e hanno effetti pervasivi su molti ambiti di vita. La differenza sembra risiedere, al contrario, nelle reazioni della rete di supporto di ciascuno dei due pazienti.
Purtroppo, va sottolineato il ruolo negativo assunto dai media nei confronti della malattia mentale. I contenuti proposti, sia nell’ambito del trattenimento sia dell’informazione, sono molto spesso in risonanza con i pregiudizi e gli stereotipi maggiormente diffusi. Ritratti sensazionalistici e molto imprecisi di persone con patologie mentali infarciscono ogni giorno la carta stampata, in particolare quella “popolare”; le notizie di cronaca tendono a creare un legame stretto tra disagio psichico e violenza, rinforzando e amplificando immagini negative e distorte della realtà.

La prolungata esposizione ad atteggiamenti discriminatori da parte della società, porta, nel soggetto interessato, a un’interiorizzazione dello stigma. Ne consegue una bassa autostima e un progressivo ritiro dalle attività sociali. L’affetto esperito maggiormente è la vergogna, che si traduce, in genere, nella tendenza a nascondere la propria condizione patologica, limitando, tra l’altro, la possibilità di richiedere e, quindi, di ricevere aiuto e supporto da parte degli altri. Il ruolo degli operatori della salute mentale deve essere esplicitamente volto a contrastare lo stigma e le sue conseguenze negative. Il target dell’intervento è triplice: il paziente, i suoi familiari, l’operatore stesso.

A - Il paziente. È necessario instaurare con il paziente un rapporto “adulto-adulto”, esente da paternalismi e basato sulla sincerità. Il paziente ha il diritto di essere informato esaustivamente della propria patologia e delle implicazioni che ne conseguono. Il paziente, inoltre, deve essere soggetto attivo in tutte le scelte terapeutico- riabilitative che lo riguardano. Nell’elaborazione di un progetto terapeutico deve essere salvaguardata il più possibile l’autonomia della persona, non considerando come unico obiettivo la stabilizzazione clinica.

Un compito molto delicato è quello di contrastare gli affetti negativi indotti dallo stigma sociale nell’assistito. Per esempio, molti pazienti tendono a interiorizzare pensieri negativi e pessimistici a riguardo di sé stessi (“Sono malato! Non combinerò mai niente nella mia vita”) e riguardo al mondo che li circonda (“Nessuno mi accetta! Tutti mi tengono a distanza”). In tal caso i pazienti possono essere istruiti a ricercare evidenze che mettano in dubbio i costrutti stigmatizzanti stereotipati, proponendo modelli di pensiero maggiormente oggettivi e ottimistici (“Persone con disabilità peggiori si sono realizzate”).

Un altro problema, tipico da affrontare, è la vergogna, che il più delle volte si traduce in una totale reticenza del soggetto a comunicare agli altri la propria condizione di disagio mentale. Al contrario, un numero minore di pazienti decide di affrontare tale problematica con un coming out indiscriminato. Compito dell’operatore è quello di mostrare al proprio assistito una terza strada, aiutandolo a selezionare le persone maggiormente empatiche e supportive, con cui confidarsi. Da un punto di vista più concreto, sarà indispensabile avere una conoscenza precisa delle risorse cliniche e sociali presenti sul territorio e, di conseguenza, incoraggiare il paziente a servirsene in maniera efficace.

B - I familiari. Si rivela di importanza fondamentale informare compiutamente riguardo la natura, l’andamento e la prognosi della patologia da cui è affetto il paziente. Educare a riconoscere i sintomi premonitori di una crisi acuta. Insegnare a gestire i sintomi di cui soffre l’assistito. Promuovere l’utilizzo delle risorse sociali offerte dal territorio (con particolare riferimenti ai gruppi di auto-aiuto e di supporto). Fornire un adeguato sostegno per intercettare i risvolti psicologici indotti dall’onere di assistenza (affetti depressivi, di perdita, problematiche relazionali intrafamiliari).

C - L’operatore
. Occorre, infine, prendere in esame i nostri stessi atteggiamenti e comportamenti.