Negli ultimi giorni il caso di Milano Marittima ha fatto discutere: uno stabilimento balneare ha deciso di vietare l’ingresso ai bambini. Non è il primo episodio. Già in passato diversi ristoranti e locali in Italia avevano adottato la stessa scelta, rivendicando il diritto a mantenere ambienti “child free”. Ma la vera domanda è: davvero possiamo accettare tutto questo?

Immaginate se un ristorante vietasse l’ingresso alle donne. O alle persone di colore. O agli ebrei, ai disabili, o agli omosessuali. Non esisterebbe tolleranza, ma un’immediata levata di scudi, una condanna unanime, un’azione politica e legislativa rapida e decisa. Eppure, quando il divieto riguarda i bambini, il silenzio è assordante.

Non mi capacito del fatto che simili atteggiamenti non possano essere perseguiti per legge. È una forma di discriminazione a tutti gli effetti, eppure viene accettata con una leggerezza disarmante. Possibile che la politica e le istituzioni non abbiano nulla da dire? Possibile che la legge contempli giustamente tutele fortissime per altre categorie e, allo stesso tempo, consenta che si possano escludere i più piccoli?

Discriminare è sempre sbagliato, senza eccezioni. Non ci sono “categorie meno tutelabili di altre”. La dignità della persona umana non dipende dalla forza con cui una persona sa far valere i suoi diritti, ma è connaturata al semplice fatto di esistere.

Quindici anni fa, quando ero assessore al Comune di Roma, mi venne segnalato un caso paradossale: in un giornale di annunci comparivano inserzioni di appartamenti in affitto che specificavano “no cani, no famiglie con bambini”. Presentai un esposto alla Procura, un gesto simbolico per denunciare la follia di una simile discriminazione. Eppure oggi siamo ancora fermi lì, con una mentalità che, seppur mascherata da “quieto vivere”, ripropone una logica simile a quella dell’apartheid: alcune categorie sono ammesse, altre no.

La cosa più ipocrita è che da un lato si insiste – giustamente – sull’importanza dei congedi parentali, sul ruolo dei padri e delle madri, sull’equilibrio tra lavoro e famiglia, e dall’altro si tollera una cultura che considera i bambini come un fastidio. Come se fossero un rumore di fondo da eliminare, invece che la parte più fragile e preziosa della società.

Qualcuno giustifica queste scelte dicendo che i bambini fanno rumore. Ma i bambini hanno sempre fatto rumore. Erano vivaci negli anni ’70 come lo sono oggi, forse anche di più, visto che allora erano il doppio di quelli che abbiamo adesso. I ristoranti erano più caotici, certo, ma nessuno si sognava di vietarne l’ingresso. Forse non sono cambiati i bambini, ma le nostre aspettative di adulti. Forse siamo diventati meno disponibili a fare spazio alla vita, al suo disordine, alla sua imprevedibilità.

La verità è che quando si accettano divieti come quelli di Milano Marittima o di certi ristoranti “no kids”, non si discriminano soltanto i più piccoli, ma si lancia un messaggio culturale devastante: che i bambini non sono un valore, ma un problema. Poi non lamentiamoci della denatalità…