Sempre più spesso giungono notizie di giovani aggrediti in strada: botte e coltelli, i mezzi. Rapine per modesti bottini, spesso. Altre volte violenza gratuita, per un sì o un no a una sigaretta, usata come pretesto. Le statistiche del Ministero dell’Interno dicono che la metà dei poco di 300 omicidi volontari (numero in sé non elevato in rapporto alla popolazione e non in aumento) accertati nel 2023/2024 è avvenuto all’esito di una lite degenerata e questo fatto, sì, è invece in aumento: si comincia con le parole, si arriva ai fatti. Si rovinano vite, propria e altrui, senza neanche un perché ben chiaro.

Molti dei minorenni che finiscono nel circuito penale hanno a che fare con coltelli e sostanze, si giustificano dicendo che di portare il coltello per difendersi, temendo un’aggressione. Il sospetto dei magistrati che se ne occupano è che il più delle volte la difesa sia una scusa.

Ma poi basta entrare in un liceo semicentrale di provincia, a discutere di uso della forza in democrazia tra legittima difesa e tenuta della piazza, per capire che quello di sentirsi più sicuri con un coltello in tasca (magari senza sapere che è un reato portarlo, e non calcolando i rischi per l’incolumità propria e altrui che ne deriva nell’emotività) è un immaginario diffuso anche tra comunissimi studenti: ragazzi e ragazze normalmente tranquilli.

Nell’indagare questo tema, su cui è uscito un ampio servizio sul numero 49/25 di Famiglia Cristiana, abbiamo raccolto la testimonianza di Giovanni, studente universitario che ha vissuto la traumatica esperienza di un’aggressione gratuita in strada.

«Era gennaio del 2024, erano circa le 22.30, mi trovavo con un amico in una piazza centrale di Torino», racconta Giovanni A., studente al primo anno di università, «avevo 17 anni. Si sono avvicinati in tre, a occhio più grandi di me, uno mi ha chiesto una sigaretta, che non avevo, poi all’improvviso mi ha messo un braccio attorno al collo. Nel frattempo il mio amico era andato via».

Come ha reagito?

«L’esperienza del judo, praticato per 13 anni da quando ne avevo tre, mi ha dato la lucidità di non andare nel panico: gli ho tenuto il polso, ma intanto un altro mi ha tirato per terra per le gambe. Sono rimasto giù, perché il judo mi ha insegnato a guardare le mani: avevo intuito un bagliore nella mano di chi mi teneva, ho temuto un coltello, ho ceduto per non aggravare la situazione, ho preso un calcio su un occhio mentre ero a terra, ma mi è andata bene, erano molto ubriachi hanno desistito. Ho cercato di restare contenuto nelle reazioni, non ho resistito, mi hanno aiutato gli automatismi del judo, sono riuscito a non perdere la calma, magari un altro per adrenalina o per orgoglio avrebbe provato a farsi valere o lasciato prevalere la rabbia, aggravando il rischio».

È complicato superare dopo?

«È un trauma, può servire un aiuto: a me per un po’ è capitato di stare guardingo, anche di avere l’istinto di attaccare per primo se avvertivo un pericolo che magari non c’era, per fortuna i miei amici sono stati attenti alle mie reazioni. All’inizio ti vergogni anche a tornare a scuola con l’occhio bendato».

Alcuni pensano di iniziare a portare il coltello per difendersi, ci ha pensato?

«Per il sentimento che ho provato, pur avendolo dominato credo anche grazie al judo nel quale ho avuto un buon maestro che ha sempre messo in riga chi faceva lo spaccone, posso immaginare quale meccanismo scatti nella mente di chi lo pensa ma, a parte che con una lama ti puoi ferire da solo, a uno contro tre il coltello serve poco, anzi, se ti disarmano rischi di più. Ho portato, senza usarlo mai, lo spray al peperoncino per un po’, poi ho smesso. Può avere senso solo per neutralizzare un aggressore in un contesto isolato, in mezzo alla gente invece è molto pericoloso. A Torino, nel 2017, davanti al maxischermo per la finale di Champions League, in piazza San Carlo, per uno spray al peperoncino usato come arma impropria per rapina, tra la folla, due persone sono morte e migliaia sono rimaste ferite, alcune gravemente, schiacciate dalla reazione del panico collettivo. A distanza, posso dire che l’esperienza, elaborata, mi ha insegnato quando vedo in giro facce che non mi piacciono a cambiare strada».

Consiglierebbe di iscrivere un bambino a judo?

«Sì, ma non con l’idea di insegnargli a difendersi menando in strada, ma perché si impara a controllare l’emotività e l’avversario: i suoi movimenti, le sue mani, i dettagli intorno. Se c’è un gradino e ti allontani, meglio il lato opposto per non rischiare di morire sbattendoci la testa».