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La cronaca ci parla sempre più spesso di giovanissimi che compiono attacchi usando lame. Andare in giro con un coltello sembra oggi essere un comportamento molto più diffuso che in passato. Non è stato normalizzato, per fortuna, ma di certo ascoltando le testimonianze di molti educatori e docenti che lavorano a contatto con adolescenti, si ha la percezione che siano numerosi i ragazzi che escono di casa portando nello zaino o in tasca una lama. Alcuni di loro, poi, avendola a disposizione, ne fanno uso all’interno di conflitti estemporanei o come strumento per intimidire (e a volte colpire) l’altro durante furti, scorribande o risse.
Inevitabile domandarsi come è avvenuto questo “sdoganamento” generazionale dei coltelli.
Primo aspetto: sono solo maschi quelli che escono di casa, tenendo un coltello a portata di mano. Inevitabilmente viene da pensare che il coltello rappresenti un prolungamento della propria identità di genere. Il vero maschio se ne può impossessare e portarlo in giro per dimostrare, anche attraverso di esso, di appartenere alla mascolinità vera. Il che ha un duplice significato: da una parte essere maschi comporta fragilità interiori che richiedono supporti esterni a sé, oggetti che fungano da veri e propri status symbol che confermino e rendano certi di essere dalla parte giusta, relativamente ai proprio ruolo di genere. Un tempo era la sigaretta, oggi è il coltello. Stride moltissimo tale condizione con il lavoro enorme che si sta facendo per fare prevenzione della violenza di genere, per aiutare il “maschile” a connotarsi di nuove competenze emotive e relazionali che permettano a chi nasce e cresce maschio di coltivare un’identità non centrata sul mito del vero uomo, ancorandola invece al concetto di “uomo vero”. Ma questo messaggio educativo e preventivo, purtroppo, si confonde oggi con il messaggio che arriva a chi cresce attraverso il contesto socio-culturale di riferimento.
E qui abbiamo il secondo fattore di criticità, oggi pandemico. Perché tutto ciò che dal mondo arriva alla mente e al cuore dei nostri figli maschi, sembra radicarli in modo inevitabile al modello del “vero uomo” che si fa giustizia da solo, che usa la potenza violenta più che la competenza emotiva, quando c’è da risolvere un conflitto. Ci sono coltelli nelle serie tv più amate dagli adolescenti, c’è un richiamo continuo alla violenza e alla prepotenza, al machismo e al mito del “vero uomo” nelle canzoni e nei videogiochi con cui ogni giorno per ore i nostri figli riempiono il loro tempo libero. Ed è chiaro che non è colpa di una canzone o di un videogioco se uno va in giro con un coltello e poi lo usa. Ma c’è qualcosa di profondamente pericoloso che sta avvenendo nella vita di molti ragazzi. Da una parte, si trovano esposti ad un’adultità fragile che ha perso presenza e autorevolezza educativa nei loro confronti. Per crescere, soprattutto in condizioni di fragilità, servono adulti capaci di stare in relazione, capaci di transennare gli eccessi emotivi della prima adolescenza con la forza di proposte educative coinvolgenti e capaci di rispondere al bisogno di appartenenza, di protagonismo, di validazione che ogni adolescente porta con sé. Spesso però proprio i ragazzi più fragili escono precocemente dal “radar” del mondo adulto che educa. Escono dal circuito scolastico ed entrano in un limbo in cui solitudine e isolamento diventano fattori di amplificazione del proprio sentirsi disorientati e impotenti.
È su questo substrato che fanno breccia i modelli culturali di riferimento che attraverso gli schermi sempre accesi a riempire il vuoto di crescite denutrite e non allenate alla ricerca di senso, vengono avviate al mito della violenza. Un ragazzo un giorno mi ha detto: “Magari nella vita reale sei il più grande sfigato che esista, poi entri in un videogioco e li fai fuori tutti. Così finalmente ti senti capace, senti di avere ancora un valore”. Ecco il quesito fondamentale: chi ha insegnato agli adolescenti contemporanei che è un valore uscire di casa con una lama nello zaino o nelle tasche? Lo hanno imparato da soli, come autodidatti, o nelle loro vite è entrato un messaggio che nel coltello ha identificato un simbolo di potenza e mascolinità, di prepotenza e controllo sull’altro? La mitologia del coltello tra gli adolescenti, almeno in parte, nasce dal fatto che “agire violenza” tutt’oggi continua ad essere una modalità con cui i maschi si impossessano in modo totalmente “maldestro” del proprio ruolo di genere. Per cambiare questi copioni, oggi più che mai servono testimoni adulti credibili che sappiano stare in relazione, educare e modellare una crescita maschile dove essere competenti è più appagante che essere potenti, dove essere “uomo vero” è più premiante che essere “vero uomo”. È un compito che spetta soprattutto ai padri, essi stessi oggi sospesi tra il desiderio di nuovi riferimenti e modelli maschili di riferimento e la percezione di una fragilità e impotenza che li trova disorientati di fronte alle sfide educative che il terzo millennio ha messo nelle vite di chi cresce e di chi fa crescere.




