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Quello che più le fa male non sono gli striscioni ingiuriosi apparsi domenica sugli spalti dell'Olimpico durante Roma-Napoli. E nemmeno gli insulti che continua a ricevere sui social network: "Ho paura che presto un'altra madre possa piangere un figlio com'è capitato a me con Ciro. Da quando è morto ho sentito tante belle frasi, ma quanto è accaduto dimostra che non è cambiato nulla". Antonella Leardi è la madre di Ciro Esposito, il tifoso del Napoli morto dopo 52 giorni di agonia iniziata quando fu ferito da un colpo di pistola prima dell'ultima finale di coppa Italia da un tifoso della Roma. Da allora ha fondato un'associazione, "Ciro vive" e scritto un libro con lo stesso titolo. Gira le scuole e incontra giovani in tutta Italia per portare la sua testimonianza di non violenza. Per questo suo impegno, ha di recente vinto il premio "Magna Grecia Awards". Ma proprio questo stare sotto i riflettori a molta gente non va giù.
Signora Leardi, perché ha scelto di non vivere il proprio dolore in silenzio?
"Se mi chiudo in casa, che significato avrebbe quanto mi è successo? Ciro non tornerà più indietro e allora nel mio piccolo cerco di battermi per impedire che episodi simili possano ripetersi. Ogni giorno piango mio figlio e prego Dio che mi dia la forza di non abbattermi e continuare".
Si aspettava di leggere quegli striscioni?
"Il pretesto è stata la presentazione del mio libro a Roma. Io l'ho fatto in assoluta buona fede, ma se avessi saputo che il risultato sarebbe stato questo non ci sarei mai andata".
Perché ha chiamato la sua associazione e il libro "Ciro vive"?
"Prima di tutto perché sono credente. Ciro, anche se ha sofferto molto in ospedale, è morto sereno, riconciliandosi con il Signore. E io, se farò la Sua volontà, so che mi ricongiugerò a lui. E poi perché nei gesti, nelle testimonianze delle tante persone che ho incontrato da quando lui non c'è più ho capito che la sua morte non è stata inutile. Con l'associazione abbiamo donato dei macchinari al Policlinico Gemelli e stiamo aiutando una casa famiglia a Forcella. Anche i proventi del libro andranno tutti in beneficenza".
Ha incontrato molti tifosi in questo periodo?
"A migliaia, da ogni parte d'Italia. Mi sono sembrati tutti ragazzi normalissimi, come il mio Ciro. Purtroppo c'è una minoranza che hanno il cuore arido e che cercano ogni pretesto per fare violenza. Il calcio, in sè, non c'entra niente con questa gente. Ma è compito delle istituzioni e delle società riuscire a tenerli fuori dagli stadi. E, ripeto, non mi sembra che finora ci siano riusciti".


La squalifica di un turno della curva sud della Roma le sembra una punizione adeguata per gli striscioni di domenica?
"Non sono un'esperta in queste cose, ma non mi sembra un provvedimento utile a far cambiare davvero le cose".
Ha incontrato anche tifosi della Roma?
"Sì, in particolare mi è rimasto nel cuore un ragazzo. Quando Ciro era ricoverato al Gemelli, si avvicinò intimidito a noi familiari. Ci diede una sciarpa della sua squadra che conservo ancora"
E calciatori?
"Sì, in occasioni ufficiali. Ma gli unici che ricordo davvero sono il portiere della Roma Morgan De Sanctis e l'attaccante del Napoli Lorenzo Insigne. Erano al mio fianco durante i funerali di Ciro e hanno pianto per tutto il tempo".
Ciro è stato dipinto come un mezzo camorrista, un rapinatore. Chi era davvero?
"Un ragazzo di 31 anni che viveva in un quartiere difficile di Napoli come Scampia, ma non aveva mai avuto nessun problema con la giustizia. Era un ragazzo che lavorava. Lavava le macchine con i suoi fratelli, Michele e Pasquale, nell'autorimessa che gestivano insieme. E poi voleva riprendere gli studi per prendersi il diploma. Aveva una fidanzata, Simona, e una grande passione per il Napoli. Negli ultimi tempi, a causa della crisi, non aveva neppure una macchina tutta sua e così era costretto a dividere con me la mia. Spesso, per scherzare, litigavamo su chi aveva messo per ultimo la benzina...Questo era Ciro: quando arrivava, illuminava tutta la casa con la sua presenza".
Viveva in casa con voi. Com'era la sua camera?
"La divideva con suo fratello Michele. Ogni volta che tornava da un viaggio o da un trasferta per vedere il Napoli portava un ricordo: un accendino o un pupazzetto. Tutto è rimasto com'era prima. Solo una cosa è cambiata. Sul suo letto ho messo la maglia di Maradona che sognava di indossare quando, una volta guarito, sarebbe andato a trovarlo a Dubai".



