È stata così costante la richiesta da parte di lettori e ascoltatori durante l’ormai mia lunga carriera di biblista che nel 2019 ho deciso persino di dedicare al tema un volumetto specifico intitolato La santa violenza (ed. il Mulino). Riprendo ora brevemente questo argomento, collocandolo all’interno di un percorso un po’ arduo che sto proponendo ai lettori, quello della corretta interpretazione della Bibbia.

Ebbene, nelle Sacre Scritture ci si imbatte in almeno seicento passi che ci informano sul fatto che popoli, re e singoli individui hanno attaccato altri, li hanno annientati o uccisi; in più di mille passi è l’ira di Dio a scatenarsi punendo con la morte, la rovina, col fuoco divorante, giudicando, vendicando e minacciando l’annientamento, e in oltre cento passi è il Signore stesso a ordinare espressamente di uccidere uomini.

È evidente che il principio: «C’è nella Bibbia e quindi è da credere» diventa pericoloso quando è adottato in modo meccanico e letteralistico. È questo il cosiddetto «fondamentalismo» – da noi trattato nella puntata precedente – che, partendo anche da una personale buona fede e desiderio di fedeltà assoluta, sconfina nel paradosso, per non dire nell’assurdo o nel drammatico. Il discorso è, quindi, quello generale della corretta interpretazione delle Scritture tenendo presenti, da un lato, una componente letteraria che è quella del linguaggio, del modo di esprimersi delle culture dell’antico Vicino Oriente, dei “generi” letterari, dell’enfasi retorica, e dall’altro lato, una componente teologica capitale che subito illustriamo.

La Bibbia – Antico e Nuovo Testamento – non è un’asettica raccolta o catechismo di tesi o teoremi astratti da accettare e praticare automaticamente. Come è evidente in ogni sua pagina, è una storia della salvezza. Dio si rivela entrando nella vicenda dell’umanità, grondante peccato e miserie, e lentamente, progressivamente e con pazienza, conduce l’uomo verso orizzonti di verità e di amore più alti e perfetti.

La Rivelazione non è una parola sospesa nei cieli e comunicabile solo con l’estasi e decollando dalla realtà concreta, ma è concepita come un seme o un germe che si apre la strada sotto il terreno sordo e opaco dell’esistenza terrena. Noi, allora, non dobbiamo fermarci al singolo passo: esso è un’espressione della paziente e lunga educazione di Dio nei confronti della “durezza di cuore” o della “dura cervice” dell’uomo (e questo vale anche per le violenze dell’epoca cristiana, nonostante l’evidente collisione di questo comportamento col Vangelo).

Ma, anche senza voler mostrare la meta a cui ci conduce Cristo – «nostra pace», come lo definisce san Paolo, colui che ci invita persino a «porgere l’altra guancia» – già nell’Antico Testamento è presentato un Dio che perdona fino alla millesima generazione (Esodo 34,7), che scommette sulla possibilità di conversione del peccatore, che persino cambia parere e impedisce alla sua giustizia di irrompere sul male perpetrato dall’umanità (Esodo 32,14). Vorremmo a questo proposito citare solo due testi emblematici.

Il primo è nel libro del profeta Ezechiele: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio – dice il Signore Dio – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?… Io non godo della morte di chi muore» (18,23.32). Il secondo è del Libro della Sapienza: «Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza, ci governi con molta indulgenza… Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare l’umanità» (12,18-19).