Il divieto di fecondazione eterologa non c’è più, ma le regole su come va fatta non ci sono ancora. Scrivere le regole nuove è necessario, perché la legge 40, amputata, va ora ricucita. Succede sempre così, quando si abolisce un divieto: perché per impedire una condotta come illegittima basta scrivere “vietato” senza altre distinzioni, mentre a disciplinare una condotta come facoltà legittima occorre scrivere le regole che le dànno contenuto, dimensioni e confini. In una materia come questa, abolita la norma di divieto, sono imprescindibili le norme di positiva disciplina.   

Si è mosso il Governo, si dovrà muovere il Parlamento. Ma frattanto scalpitano le Regioni, con la Toscana in testa, come cavalli al canapo, impazienti di scattare senza segnale. E gli assessori addetti alla Sanità si collegano, i presidenti regionali si convocano, un documento di “linee guida” è già pronto e pubblicato, problemi giuridici e umani di enorme importanza sono sbrigati in via amministrativa, fra l’altro accampando un potere normativo che non appartiene certo ai governatori regionali.
Ha un bel dire, il prologo del documento, che è solo un accordo transitorio, «in attesa che il Parlamento legiferi in materia», e che per ora si danno «indirizzi operativi».
Quando si affrontano quesiti come l’età (minima e massima) di ammissione, l’anonimato o la registrazione, la tracciabilità dei gameti, il numero di figli di un medesimo donatore, la selezione delle «principali caratteristiche fenotipiche»(qualcosa, parliamoci chiaro, che evoca la somiglianza o differenza di “razza”); quando permangono sullo sfondo i problemi non affrontati sul diritto del figlio a conoscere le sue origini, e l’imprescrittibile azione di disconoscimento che gli competerà “pro veritate”; allora l’odierna iniziativa delle Regioni assomiglia a una falsa partenza
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Diritto, etica, e poi anche, dai tetti in giù, problemi di economia. In tempi di affanno e di crisi e di bilanci rossi, i governatori regionali fanno conto che i costi dell’eterologa possano, anzi debbano essere pagati con denaro pubblico, a guisa di «livelli essenziali di assistenza» (LEA). Ma invece la definizione dei LEA, con le inclusioni e le esclusioni, appartiene solo allo Stato, secondo l’art. 117 della Costituzione. Non si fanno norme giuridiche in modo eterologo, lo Stato non ha bisogno di donatori di norme.