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Il 20 marzo è quasi primavera. Anche in Somalia, dove fa caldo tutto l’anno, e in quel periodo c’è ancora un clima secco, in attesa dei monsoni che portano la stagione delle piogge. Mogadiscio è a un passo dalla linea dell’Equatore, la terra riarsa, spoglia. Con la polvere che si solleva dal selciato attraversato dalle jeep. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin stanno per atterrare in quel che resta dell’aeroporto di Mogadiscio dopo un viaggio di 4 ore da Bosaso.
«Finalmente», sospira Miran. «Non vedo l’ora di farmi una doccia».
«Il viaggio più scomodo della mia vita», commenta Ilaria seduta sul pavimento traballante dell’aereo militare, con la solita morsa allo stomaco che le prende ogni volta che decolla e che atterra. Di aerei ne ha già presi tanti nella sua vita, ma ogni volta deve fare i conti con la sua paura del volo e delle altezze. Proprio l’ideale per chi ha scelto di fare l’inviato speciale! Ma le paure
In un bel giorno
di primavera
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sono fatte per essere vinte, se lo ripete sempre: «Se ti lasci fregare dalla paura non farai mai nulla. Neppure quello che desideri di più, quello in cui credi».
E Ilaria crede fermamente nel suo lavoro e nella storia che ha raccolto in quel viaggio. È così abituata a ignorare la paura che si è quasi dimenticata delle minacce di morte che ha ricevuto solo pochi giorni prima, quando sono stati sequestrati. Sono rimasti solo poche ore nelle mani di quegli uomini armati mandati da chissà chi, ma erano bastate a far perdere loro l’aereo. Ed erano stati costretti a rimanere a Bosaso quattro giorni in più. C’era stato il tempo per parlare con i medici di un’Organizzazione umanitaria italiana e fare altre ricerche. Aveva scoperto che dai pozzi scavati con i soldi della Cooperazione Italiana uscivano rivoli sottili di acqua sporca insufficienti sia per irrigare sia per abbeverare pecore e cammelli e per dissetare i somali. Altri soldi sprecati. C’era stato anche il tempo per godersi un pomeriggio al mare. Acque trasparenti, incantevoli. Ma forse contaminate. Miran si era tuffato lo stesso, raccogliendo conchiglie e stelle di mare da portare al figlio Ian.
«Come ci andiamo dall’aeroporto a Mogadiscio?», chiede Miran. Sono pochi chilometri, ma in una zona di guerra non si può certo fare l’autostop e i taxi non esistono.
«Già, Abdi e la scorta ci aspettavano quattro giorni fa e non c’è stato modo di avvisarli», ricorda Ilaria riferendosi all’autista che avevano ingaggiato al loro arrivo a Mogadiscio il 12 marzo.
«In qualche modo faremo», prosegue Miran che non perde mai il suo ottimismo.
«Dopo il servizio che andrà in onda al Tg di stasera chiederò in redazione di fermarmi qualche giorno in più», dice Ilaria al compagno di lavoro. «Dopo la partenza dell’esercito italiano la Somalia finirà per essere dimenticata. Che ne sarà di quella popolazione stremata dalla fame, dalle malattie, dalla paura?».
Pensa come sempre ai bambini, alle donne, ai vecchi.
«E chissà quando potrò tornare quaggiù».
All’aeroporto la fortuna viene loro in aiuto: «Avete bisogno di un passaggio?».
Un volto conosciuto, un gesto di intesa tra i due reporter. Sì, possono fidarsi. Nel salire sull’auto non si separano dalle loro sacche da viaggio: ci sono già tante storie lì dentro. Molta sofferenza, un po’ di speranza, e qualche mistero. Stanno dentro venti videocassette girate raccogliendo immagini e testimonianze della gente comune, dei volontari delle Organizzazioni, dei capi somali. E soprattutto c’è la scottante intervista al Sultano di Bosaso.
Pochi minuti e sono già al Sahafi Hotel International, dove ancora sono alloggiati i pochi giornalisti che non
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sono partiti. Miran e Ilaria si dividono ed entrano nelle loro camere. Le sacche si afflosciano sulle lenzuola: taccuini sparsi sul letto di Ilaria, la videocamera e le cassette appoggiate su quello di Miran. E poi via i vestiti sudati e impolverati, il sollievo di una doccia e dopo abiti puliti. Per Ilaria un paio di pantaloni color cachi e una camicia bianca lunga, i capelli vaporosi raccolti da un elastico e gli immancabili occhiali da sole con le lenti scure che la riparano dal sole accecante e la proteggono dagli sguardi curiosi e sospettosi.
Prima del pranzo c’è il tempo per due telefonate importanti. La prima telefonata è alla redazione del Tg3, al collega Flavio Fusi, per confermare il collegamento con il satellite per la trasmissione del servizio nel Tg delle 19.
«Ciao Flavio, ora non posso parlare ma ho delle cose grosse, un ottimo servizio».
In Italia è quasi l’una, l’ora di pranzo di una domenica come tante. Subito dopo mangiato, papà Giorgio farà di sicuro il suo consueto riposino pomeridiano. Mamma Luciana risponde al secondo squillo, quasi fosse accanto al telefono ad attendere la sua chiamata. È da giorni in effetti che Ilaria non si fa sentire. «Tutto bene mamma, sono a Mogadiscio. Un po’ stanca ma soddisfatta».
Un sospiro di sollievo all’altro capo della cornetta e poi, la domanda di rito di papà:
«Quando torni Ilaria?».
«Presto, ancora qualche giorno e sono con voi».
Nella hall dell’albergo c’è il tempo per bere qualcosa di fresco e fare due chiacchiere con i colleghi prima di rimettersi al lavoro. Ilaria si allontana, fa per tornare in camera, quando succede qualcosa di imprevisto. Ilaria si ritrova con un messaggio in mano. Sono poche parole, ma sono sufficienti per metterla in allarme.
Corre da Miran a riferirgli tutto.
«Devo andare dall’altra parte di Mogadiscio, oltre la linea verde, e anche in fretta. Ci vediamo più tardi, vado a cercare l’autista».
«Ilaria, sai che è pericoloso, vengo con te. Così per strada mi racconti», dice Miran prendendo la macchina fotografica.
Sulla Toyota pick up bianca Miran sale davanti a fianco dell’autista Said Ali Abdi, mentre Ilaria si sistema sul sedile dietro. In piedi, sul cassone del fuoristrada, la guardia del corpo Nur Aden armata di kalashnikov. Un tragitto breve fino all’hotel Amana dopo aver superato un check point di militari pakistani. Ilaria scende, ha fretta, non fa caso agli uomini assiepati intorno al banchetto di una donna che vende il tè.
«Allora?», chiede Miran quando Ilaria torna dopo pochi minuti. «Nulla da fare. Non capisco. Mi hanno fatto venire qui per niente», ordina all’autista.
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Vicino a loro, gli uomini che bevevano il tè buttano a terra i bicchieri e salgono su una Land Rover blu. Sono sette e sono armati. Ilaria e Miran parlano del servizio che devono montare, e non si accorgono di loro. Ma appena l’auto si mette in moto l’autista vede dallo specchietto retrovisore che l’auto li sta seguendo. La Toyota accelera, li affianca, si butta in mezzo alla strada sbarrando il passaggio. L’autista ingrana la retromarcia, ma si blocca contro un muretto. Due, tre spari, l’abbozzo di una difesa da parte dell’autista e della guardia del corpo, che poi fuggono via. Nell’auto i due giornalisti sono in trappola.
Ilaria vede due uomini uscire dalla Land Rover, pochi passi, lo sportello che si apre, le loro braccia che si alzano. Il primo sparo è per Miran.
Anche Ilaria alza le braccia, in un gesto di resa, poi di protezione. Mani sul viso, per non vedere.
Una detonazione, poi il buio.
«Finalmente», sospira Miran. «Non vedo l’ora di farmi una doccia».
«Il viaggio più scomodo della mia vita», commenta Ilaria seduta sul pavimento traballante dell’aereo militare, con la solita morsa allo stomaco che le prende ogni volta che decolla e che atterra. Di aerei ne ha già presi tanti nella sua vita, ma ogni volta deve fare i conti con la sua paura del volo e delle altezze. Proprio l’ideale per chi ha scelto di fare l’inviato speciale! Ma le paure
In un bel giorno
di primavera
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sono fatte per essere vinte, se lo ripete sempre: «Se ti lasci fregare dalla paura non farai mai nulla. Neppure quello che desideri di più, quello in cui credi».
E Ilaria crede fermamente nel suo lavoro e nella storia che ha raccolto in quel viaggio. È così abituata a ignorare la paura che si è quasi dimenticata delle minacce di morte che ha ricevuto solo pochi giorni prima, quando sono stati sequestrati. Sono rimasti solo poche ore nelle mani di quegli uomini armati mandati da chissà chi, ma erano bastate a far perdere loro l’aereo. Ed erano stati costretti a rimanere a Bosaso quattro giorni in più. C’era stato il tempo per parlare con i medici di un’Organizzazione umanitaria italiana e fare altre ricerche. Aveva scoperto che dai pozzi scavati con i soldi della Cooperazione Italiana uscivano rivoli sottili di acqua sporca insufficienti sia per irrigare sia per abbeverare pecore e cammelli e per dissetare i somali. Altri soldi sprecati. C’era stato anche il tempo per godersi un pomeriggio al mare. Acque trasparenti, incantevoli. Ma forse contaminate. Miran si era tuffato lo stesso, raccogliendo conchiglie e stelle di mare da portare al figlio Ian.
«Come ci andiamo dall’aeroporto a Mogadiscio?», chiede Miran. Sono pochi chilometri, ma in una zona di guerra non si può certo fare l’autostop e i taxi non esistono.
«Già, Abdi e la scorta ci aspettavano quattro giorni fa e non c’è stato modo di avvisarli», ricorda Ilaria riferendosi all’autista che avevano ingaggiato al loro arrivo a Mogadiscio il 12 marzo.
«In qualche modo faremo», prosegue Miran che non perde mai il suo ottimismo.
«Dopo il servizio che andrà in onda al Tg di stasera chiederò in redazione di fermarmi qualche giorno in più», dice Ilaria al compagno di lavoro. «Dopo la partenza dell’esercito italiano la Somalia finirà per essere dimenticata. Che ne sarà di quella popolazione stremata dalla fame, dalle malattie, dalla paura?».
Pensa come sempre ai bambini, alle donne, ai vecchi.
«E chissà quando potrò tornare quaggiù».
All’aeroporto la fortuna viene loro in aiuto: «Avete bisogno di un passaggio?».
Un volto conosciuto, un gesto di intesa tra i due reporter. Sì, possono fidarsi. Nel salire sull’auto non si separano dalle loro sacche da viaggio: ci sono già tante storie lì dentro. Molta sofferenza, un po’ di speranza, e qualche mistero. Stanno dentro venti videocassette girate raccogliendo immagini e testimonianze della gente comune, dei volontari delle Organizzazioni, dei capi somali. E soprattutto c’è la scottante intervista al Sultano di Bosaso.
Pochi minuti e sono già al Sahafi Hotel International, dove ancora sono alloggiati i pochi giornalisti che non
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sono partiti. Miran e Ilaria si dividono ed entrano nelle loro camere. Le sacche si afflosciano sulle lenzuola: taccuini sparsi sul letto di Ilaria, la videocamera e le cassette appoggiate su quello di Miran. E poi via i vestiti sudati e impolverati, il sollievo di una doccia e dopo abiti puliti. Per Ilaria un paio di pantaloni color cachi e una camicia bianca lunga, i capelli vaporosi raccolti da un elastico e gli immancabili occhiali da sole con le lenti scure che la riparano dal sole accecante e la proteggono dagli sguardi curiosi e sospettosi.
Prima del pranzo c’è il tempo per due telefonate importanti. La prima telefonata è alla redazione del Tg3, al collega Flavio Fusi, per confermare il collegamento con il satellite per la trasmissione del servizio nel Tg delle 19.
«Ciao Flavio, ora non posso parlare ma ho delle cose grosse, un ottimo servizio».
In Italia è quasi l’una, l’ora di pranzo di una domenica come tante. Subito dopo mangiato, papà Giorgio farà di sicuro il suo consueto riposino pomeridiano. Mamma Luciana risponde al secondo squillo, quasi fosse accanto al telefono ad attendere la sua chiamata. È da giorni in effetti che Ilaria non si fa sentire. «Tutto bene mamma, sono a Mogadiscio. Un po’ stanca ma soddisfatta».
Un sospiro di sollievo all’altro capo della cornetta e poi, la domanda di rito di papà:
«Quando torni Ilaria?».
«Presto, ancora qualche giorno e sono con voi».
Nella hall dell’albergo c’è il tempo per bere qualcosa di fresco e fare due chiacchiere con i colleghi prima di rimettersi al lavoro. Ilaria si allontana, fa per tornare in camera, quando succede qualcosa di imprevisto. Ilaria si ritrova con un messaggio in mano. Sono poche parole, ma sono sufficienti per metterla in allarme.
Corre da Miran a riferirgli tutto.
«Devo andare dall’altra parte di Mogadiscio, oltre la linea verde, e anche in fretta. Ci vediamo più tardi, vado a cercare l’autista».
«Ilaria, sai che è pericoloso, vengo con te. Così per strada mi racconti», dice Miran prendendo la macchina fotografica.
Sulla Toyota pick up bianca Miran sale davanti a fianco dell’autista Said Ali Abdi, mentre Ilaria si sistema sul sedile dietro. In piedi, sul cassone del fuoristrada, la guardia del corpo Nur Aden armata di kalashnikov. Un tragitto breve fino all’hotel Amana dopo aver superato un check point di militari pakistani. Ilaria scende, ha fretta, non fa caso agli uomini assiepati intorno al banchetto di una donna che vende il tè.
«Allora?», chiede Miran quando Ilaria torna dopo pochi minuti. «Nulla da fare. Non capisco. Mi hanno fatto venire qui per niente», ordina all’autista.
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Vicino a loro, gli uomini che bevevano il tè buttano a terra i bicchieri e salgono su una Land Rover blu. Sono sette e sono armati. Ilaria e Miran parlano del servizio che devono montare, e non si accorgono di loro. Ma appena l’auto si mette in moto l’autista vede dallo specchietto retrovisore che l’auto li sta seguendo. La Toyota accelera, li affianca, si butta in mezzo alla strada sbarrando il passaggio. L’autista ingrana la retromarcia, ma si blocca contro un muretto. Due, tre spari, l’abbozzo di una difesa da parte dell’autista e della guardia del corpo, che poi fuggono via. Nell’auto i due giornalisti sono in trappola.
Ilaria vede due uomini uscire dalla Land Rover, pochi passi, lo sportello che si apre, le loro braccia che si alzano. Il primo sparo è per Miran.
Anche Ilaria alza le braccia, in un gesto di resa, poi di protezione. Mani sul viso, per non vedere.
Una detonazione, poi il buio.



