Stringe la sua valigia, carica soltanto di speranza. È la stessa che lo ha accompagnato per decenni, dal giorno in cui, bambino di appena cinque anni, fu costretto ad abbandonare la sua casa nel Negev. Ahmed l’anno scorso ha lasciato ancora una volta la sua terra, Gaza, come già fece nel 1948, durante la “Al-Nakba” – “la Catastrofe” – quando oltre 700.000 palestinesi furono espulsi dai villaggi e dalle città della Palestina storica, costretti a lasciare case, bestiame e ricordi per incamminarsi verso l’ignoto. Allora, come oggi, la vita di Ahmed si riduce a pochi oggetti stipati in una valigia. Ma dentro non c’è ciò che conta davvero: un figlio, una nuora e quattro nipotini rimasti intrappolati a Gaza, sotto le bombe e l’assedio israeliano.

Una vita sospesa tra due esodi

Ahmed  Abuasid, che ha 82 anni, non è un uomo qualunque. È stato  il primo medico pneumologo e allergologo della Striscia di Gaza, figura di riferimento per generazioni di pazienti. La sua storia personale si intreccia con la nascita dello Stato di Israele: nel 1948 la sua famiglia venne deportata da Bir Sheva (oggi Be’er Sheva) verso Gaza. “Ricordo la paura e la violenza che si abbatterono sulla gente”, racconta. “Da bambino non capisci con la mente l’orrore della guerra, lo percepisci con il cuore. Era quello il mio primo incontro con il dolore che la violenza lascia dietro di sé, ma anche il primo desiderio di diventare qualcuno capace di guarirlo: un medico”. Quel sogno lo portò a studiare medicina nell’ex Jugoslavia e poi a specializzarsi a Londra, sempre con l’idea di tornare a Gaza, dove lo attendevano la sua gente e la donna della sua vita, Sanaa, diventata poi sua moglie, Sanaa Abusaid . Nel corso della sua vita a Gaza, il dottor Ahmed ha curato  migliaia di bambini e adulti, nonostante i continui assedi e le privazioni della Striscia.

L’ultima valigia

Nel 2024, la nuova “Nakba” lo ha costretto a partire ancora. Ahmed e sua moglie Sanaa sono riusciti a raggiungere l’Italia, dove oggi vivono da rifugiati a Siena. Le autorità israeliane gli hanno concesso di portare con sé solo pochi oggetti, confiscando quasi tutto il resto. “Ora questo è il mio ultimo esodo”, dice con voce pacata. “Accetto che sarà l’Italia ad accogliere le mie spoglie quando lascerò questo mondo, perché temo che non ci sarà più una terra a cui tornare dopo due anni di devastazione. A Gaza avevamo una casa grande, che per anni è stata luogo di incontro e di dialogo con medici e persone provenienti dall’Occidente. Oggi quella casa non esiste più. Ho visto cancellare due volte, in una sola vita, ciò che fa di un luogo una comunità: case, scuole, ospedali. Eppure non è la mia condizione di profugo a togliermi il respiro. È l’idea di poter sopravvivere a mio figlio e ai miei nipotini, rimasti là, nella Striscia, senza cibo né acqua, sotto i bombardamenti, impossibilitati a uscire come tutti i gazawi”.

Un appello disperato

Quello che Ahmed e Sanaa chiedono è quello che qualunque genitore può desiderare di più e senza il quale la vita diventa priva di ogni senso: “Salvate nostro figlio Fadi, nostra nuora Shorook e i nostri  quattro nipoti. Non lasciate che la nostra storia si chiuda senza di loro”. Oggi Ahmad vive in provincia di Siena come rifugiato riconosciuto. La sua storia, iniziata con la nascita dello Stato di Israele, rischia di concludersi con la morte della Palestina. La sua voce è quella di un uomo stanco, ma ancora capace di sognare l’impossibile: che almeno la sua famiglia possa essere salvata, prima che sia troppo tardi.