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Milano è la città in cui vivo da oltre 40 anni, qui mi sono sposato, subito dopo l’università, qui sono nati i miei tre figli, qui vengono a trovarmi i miei nipoti, qui lavoro, vivo, mi diverto, soffro… Insomma, per me Milano è una questione di famiglia, e anche gli scandali urbanistici che stanno attraversando la città (stavo per scrivere “travolgendo”, ma per ora non è così: speriamo…) – dicevo, questi scandali urbanistici sono anche una questione di politiche familiari. Tra i tanti “danni collaterali” delle tristi vicende milanesi ci sono anche le centinaia di famiglie che hanno fiduciosamente acquistato in questi anni gli appartamenti in costruzione, con contratti in cui risultava “tutto a posto”, dal punto di vista delle autorizzazioni comunali, e che oggi trovano bloccati, per chissà quanti anni, i propri risparmi, i propri progetti di vita, con la “certezza di non sapere” quando la questione si risolverà (mesi? anni?), e con la concreta possibilità di restare significativamente danneggiati anche economicamente. Insomma, ricordiamoci come primo punto che la prima parte lesa sono famiglie concrete, oggi “in sospeso”, che avevano scommesso sull’abitare a Milano.
Il secondo punto è proprio “abitare da famiglia a Milano”: l’anno scorso il Cisf aveva dedicato al tema casa il proprio Report annuale (Case e città a misura di famiglia, Edizioni San Paolo), e nel confrontarlo con il contesto milanese era emerso subito chiaro che Milano è una città che sta crescendo anche come popolazione, ma questa crescita esclude le famiglie, soprattutto quelle con figli. Anche i giovani milanesi, quando si sposano, vanno a vivere fuori Milano, a volte per scelta, ma più spesso per vincoli economici: un metro quadro a Milano costa davvero troppo, e i costi ovviamente crescono proporzionalmente, se devi aggiungere una cameretta per tuo figlio, e considerare una sala più grande, una cucina più ampia, ecc. : figuriamoci se poi sono due o tre, i figli! Senza dimenticare, poi, le altre emergenze di Milano, come ad esempio la perdurante carenza di alloggi per studenti universitari, insieme alla crescita tumultuosa dell’offerta abitativa privata di ricettività turistica (i famosi B&B). Alla fine, questa Milano post Expo, che è sicuramente ripartita, che è un polo attrattivo anche turistico per tutto l’anno, dove tuttora i giovani trovano lavoro molto più che altrove, dove si fanno i migliori business nazionali ed internazionali, guardandosi allo specchio si ritrova doversi chiedere: “dove sono i milanesi? Dove abitano le nostre famiglie? Dove giocano i nostri bambini?”.
Purtroppo – ed è questo il terzo punto di riflessione – checché ne dicano tutti i sindaci e le giunte comunali, di destra come di sinistra, Milano è un sistema-città che si autorganizza, ben prima delle regole imposte dal Comune, perché i players economici che agiscono e modificano Milano hanno risorse economiche e finanziarie (e “para-politiche”) ben superiori a quelle dell’Amministrazione comunale. Al Comune spetterebbe un compito – ragionevole – di governance e di garanzia delle regole, senza illudersi di essere il motore e il regista unico della città. Ma questo è un compito che non può essere abbandonato. Ecco, forse la principale illusione degli amministratori comunali di Milano di questi ultimi anni è stata che questa capacità di autopromozione della città potesse essere guidata da regole e procedure vecchie, dai protocolli operativi urbanistici applicati burocraticamente, mentre arrivavano soggetti economici che non battono ciglio se devono comprare un intero palazzo a più piani pagandolo 28.000 Euro al metro quadro(!). Così il Comune è rimasto vittima della “sindrome della mosca cocchiera”: pensava di guidare la diligenza, ma altri stavano guidando (magari anche solo con l’accordo di pochi funzionari compiacenti). Sarebbe illusoria oggi una politica urbanistica centralizzata e dirigista. Ma il libero mercato da solo, in tema abitativo, non funziona, genera squilibri, disuguaglianze e spopolamenti: serve una governance sussidiaria, in alleanza con le migliori forze sociali ed economiche, ma con il rigore di una macchina pubblica che sa “lasciar fare” al momento opportuno, ma anche dire di “no”, quando necessario, senza se e senza ma – e senza alcun favoritismo per appartenenze economiche, politiche o culturali.
Un quarto punto riguarda la ricorrente “assenza di scrupoli” (uso un’espressione neutrale, ma avrei ben altre parole in mente…) che purtroppo caratterizza troppi attori economici, spregiudicati nel non rispettare le regole, pur di fare profitto. Mentre ascoltavo le notizie sul caso di Milano (la cui verità verrà ricostruita giudiziariamente, non certo in un post on line), due episodi mi tornavano in mente: il primo sono le risate e le battute di quei cosiddetti “imprenditori” che nella notte del terremoto dell’Aquila si scambiavano battute sui prossimi fiorenti affari che avrebbero potuto fare, mentre ancora si contavano le vittime; il secondo è “Le mani sulla città”, film-denuncia del 1963 del regista Francesco Rosi, che descriveva (nella Napoli di sessant’anni fa, ma non sembra davvero così lontano dalla Milano del 2025…) il modo in cui malaffare, malavita e mala politica potevano intrecciarsi. Certo che è sotto inchiesta anche il sistema amministrativo della città: ma prima di tutto andrebbe messo sotto inchiesta – e denunciato con forza – un modo di fare business che non rispetta le regole, che cerca soluzioni creative paralegali (quando non decisamente extra-legali), che non si preoccupa dell’impatto del proprio profitto. Non è inevitabile fare affari così: esistono requisiti etici, esistono soggetti profit che fanno affari nella legalità, esistono attori economici non profit che tanto hanno da dire e da fare anche sulle politiche urbanistiche ed abitative, soggetti cooperativi di cui peraltro Milano è ricca. Insomma: è sicuramente giusto preoccuparsi di come funziona l’amministrazione comunale a Milano: ma nessun attore economico può essere giustificato perché business is business, o perché l’azienda deve fare profitto. Le regole servono per un mercato equo, e per orientare l’agire di tutti al bene comune.
Mi sia permessa un’ultima riflessione personale: sulla mia carta di identità alla voce “residenza” c’è scritto “Milano”, ma come “luogo di nascita” c’è scritto “Assisi”. E per la stragrande maggioranza dei residenti a Milano funziona così (Milano sarebbe la seconda città della Puglia, seconda solo a Bari, per numeri di abitanti nati in Puglia…). Questo è il genius loci, questa è l’identità più vera di Milano: una città accogliente, una città meticciata fin dalle sue origini, una città che sa assimilare tutti, anche in queste stagioni di migrazioni internazionali, all’interno di una propria cultura molto specifica distintiva, fatta di valori e di difetti, di lavoro frenetico ma fatto bene, di puntualità esagerata, di solidarietà sommerse ma reali, di palestre insieme agli oratori e ai centri di ascolto, di una certa arroganza “imbruttita”, temperata dall’ironia. E anche se il dialetto milanese lo parlano ormai in pochi, difficile non “diventare milanesi”, se si sceglie di vivere qui. Ma negli ultimi decenni (con giunte di destra e di sinistra) la città sta andando in tutt’altra direzione, guidata da uno sviluppo economico che non genera bene comune, ma profitti per pochi. Occorre urgentemente ridare un’anima alla città, oltre che un piano urbanistico: ma questo lo si può fare solo insieme ai suoi cittadini.



