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Lo sviluppo di una grande città metropolitana come Milano non può ridursi a un semplice calcolo economico o a una sommatoria di progetti edilizi. Abitare una città è una questione culturale e solidale, un esercizio collettivo di visione e responsabilità. Milano, nella sua storia, ha sempre saputo essere una città di legami, di accoglienza, di apertura. Oggi, davanti alle sfide della contemporaneità, quella vocazione deve essere rilanciata.
Lo ricordavano spesso figure come il cardinal Martini e il cardinal Tettamanzi e oggi lo ribadisce anche l'arcivescovo Delpini: la città non è solo un agglomerato di case, ma un luogo di pensiero, un intreccio di relazioni, un laboratorio di solidarietà. Una Milano fedele a sé stessa non può rinunciare alla sua tradizione solidale. È una questione di memoria, di coerenza storica, ma anche una necessità urgente in un mondo attraversato da crisi sociali, ambientali ed economiche.
La povertà, ad esempio, non può più essere considerata un’emergenza da affrontare con iniziative assistenzialistiche isolate, che fanno da compensazione alle diseguaglianze. Occorre piuttosto andare oltre l’estraneità che caratterizza il rapporto tra politiche urbane e disagio socioeconomico. Milano deve mettere al centro la fragilità e la debolezza come chiavi per ripensarsi. Questo significa guardare la città a partire dagli anziani e dai bambini, migliorare il trasporto pubblico, abbattere le barriere architettoniche. Una città è fatta di quotidianità, di scelte piccole e concrete, ma soprattutto dello sguardo che le orienta.
In questa prospettiva, diventano centrali i luoghi che generano legami, come la Casa della carità, nata con l’idea che la sicurezza non si ottiene con il controllo, ma con l’accoglienza. È lì che si costruisce una città vivibile: nei cantieri di solidarietà, come quelli dedicati al “Dopo di noi”, pensati per le persone con disabilità e per i loro familiari, oggi sempre più trasformati nell’idea di “Durante noi”.
Milano ha bisogno di ripartire dalla povertà e dal margine per generare visioni positive. È uno sforzo culturale e politico. Significa rinunciare alla polemica e agli annunci per scegliere con coraggio nuove direzioni strategiche, capaci di rimettere al centro la coesione sociale. Serve un pensiero che recuperi la spiritualità della città, intesa come convivialità, come ospitalità quotidiana, non solo dettata dall’urgenza.
Un esempio viene da Napoli, dal quartiere Sanità e dall’esperienza di don Antonio Loffredo, dove la bellezza, l’arte, la cultura sono diventati strumenti di riscatto. Anche Milano può farlo. Si tratta di inventare, ricreare, ripartire con slancio. Perché il profitto non può essere l’unico parametro. Serve legalità, certo, ma anche immaginazione. È tempo di dare vita a un nuovo progetto urbano con radici forti e visione lunga. Con al centro le persone, la bellezza e la giustizia sociale.



