Nel buio della barbarie nazista, ottant’anni dopo l’eccidio alle Fosse Ardeatine a Roma, un pensiero ancora riesce a gettare luce di bene. È la raccomandazione di Raffaele Zicconi, partigiano classe 1911 che, con un mozzicone di matita, scrive una lettera clandestina chiedendo ai familiari attenzione e cura: «Per il quadro della Madonna al quale tengo moltissimo».

Zicconi è uno dei 335 civili e militari italiani, prigionieri politici, ebrei o detenuti comuni, trucidati dai nazisti il 24 marzo 1944 come rappresaglia per l’attentato di via Rasella, avvenuto il giorno precedente, in cui rimasero uccisi 33 soldati della Ordnungspolizei, la polizia tedesca. Quella raccomandazione, nello strazio della strage e nella disperazione della moglie Ester, che in quel momento ha un figlio di due anni e aspetta una bambina, ha avuto il valore di un testamento spirituale: l’invito ad affidarsi sempre e comunque a Maria.

L’eccidio, avvenuto nella cava situata tra le catacombe di Domitilla e quelle di san Callisto, sulla via Ardeatina, non viene preceduto da alcun preavviso da parte tedesca. Zicconi si trova nel carcere di Regina Coeli, dopo «le botte e la fame» nei 17 giorni passati nel famigerato carcere di via Tasso, «di segregazione cellulare, murato vivo in una stanza, solo, maltrattato in maniera eccessiva». «Mi vado rimettendo da un poco di nevrosi cardiaca», scrive, dicendosi «fermamente convinto che il peggio è passato». Tenta di rassicurare i familiari e forse di rassicurare sé stesso, senza negare alcune incognite: «Qui non siamo volgari delinquenti, ma detenuti politici, se dopo la condanna vorranno portarmi via da Roma, si vedrà il da farsi». Chiede: «Abbiate fiducia e sappiatemi attendere con pazienza e rassegnazione, pregando».

Sa bene di vivere nella ceca precarietà dell’odio, così come sa di essere stato tradito da quello che credeva un compagno di resistenza e che può essere mandato a morire per nulla. Ma non vacillano la sua fede, né il conforto o la speranza che trae da Maria, da quell’immagine cara che ha lasciato a casa e che raccomanda ai suoi familiari. La sua storia è tornata alla luce grazie al nipote Massimo Ciancaglini, che ha amorevolmente raccolto le lettere e i biglietti del nonno. Raffaele, di origini siciliane, entra nella Resistenza dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, col soprannome di Lino, dove conosce il medico Luigi Pierantoni, detto Gigi. Il 7 febbraio 1944, alla vigilia di un’azione di sabotaggio ad alcuni pali postelegrafonici, Lino e Gigi vengono traditi da un sedicente compagno di nome Albertini, che li consegna entrambi alle SS. Portato al carcere in via Tasso, viene dapprima torturato e poi rinchiuso in cella d’isolamento, al buio e senz’aria. Scriverà di essersi sentito «un naufrago della vita», senza, tuttavia, rivelare i nomi dei compagni.

Nei suoi scritti non vi è traccia neanche velatamente o indirettamente, di cattivi sentimenti verso il compagno traditore. Si distingue invece una richiesta: «Se potete, fatemi recapitare il libro che ho nello studio La vita di Cristo». Scrivendo ai familiari, ci tiene a sottolineare che, dopo le sofferenze a via Tasso, da dove non si può comunicare, ha trovato «il cameratismo che a Regina Coeli è proprio bello». «Io sto bene e mi vado rimettendo. Questa mattina il mio amico mi ha dato un poco di zucchero, e mi sono fatto due uova frullate». Sottolinea: «Veri amici mi hanno assistito sul piccolo disturbo che mi affligge e godono nel vedere che le mie sembianze umane tornano a rifiorire sul mio volto». In un altro biglietto aggiunge: «Dalle porte si chiacchiera con le altre celle. Io sto di fronte a Gigi, e siamo in continuo contatto. Nella cella ci stiamo creando tante piccole comodità, e si va avanti discretamente. Mi hanno dato da mangiare, da fumare. Qui sì tutti per uno e uno per tutti». Raffaele trova il modo per corrispondere clandestinamente senza il vaglio della censura attraverso le figlie di un altro detenuto politico: «Vorrei notizie un poco più estese di tutti e di Ester in particolare, che ho un vago timore che non stia troppo bene». La moglie avverte forti fitte allo stomaco: ancora non lo sa, ma è incinta di Simonetta, che non conoscerà mai il padre. Massimo è figlio proprio di Simonetta. Chiede perdono, spiegando: «Tutta la mia spensieratezza s’è infranta nell’urto contro la vera vita. La vita di tutti, la vita che non ho mai voluto immaginare, che non ho mai conosciuta. E io nel mio sogno dorato ho dimenticato di valutare in giusta misura quelle ingiustizie che avevo considerato inezie trascurabili». Scrive ancora: «Vi penso tutti ardentemente, ma come potete immaginare, ho lo spasimo di poter riabbracciare pupetto». Pupetto è il figlio Renzo, per il quale chiede «che non sia allevato con le botte: non voglio assolutamente. Che nessuno me lo tocchi». E invoca «l’aiuto della Madonna perché sia sempre buono e docile come è».

Proviamo a immaginare quanti pensieri disperanti possano affollare la mente di un uomo lontano dalla casa e dagli affetti, in balia della follia della guerra, chissà anche quante raccomandazioni per la gestione di cose terrene possano affacciarsi prepotentemente. Per Raffaele Zicconi prevale la rilettura della vita di Cristo, il bisogno di un esame di coscienza e la premura per l’immagine della Madre di Dio. In un biglietto un po’ sbiadito si legge: «Questo per Ester: importantissimo e delicatissimo. Mi stacchi dal muro dove l’avevo attaccato dietro il seggiolone della mia scrivania il quadro della Madonna al quale tengo moltissimo. Lo spolveri bene dietro e davanti, e me lo riponga bene dopo averci tolta la cornice della quale non mi interessa nulla». Forse chiede che l’immagine gli venga recapitata, o temendo che la famiglia debba affrontare una fuga vuole essere certo che l’effigie possa essere facilmente trasportabile senza cornice. In ogni caso, tra le sue ultime parole, prima di morire nelle Fosse Ardeatine, scrive: «Mi raccomando alla Madonna che voi pregherete. Datemi conferma per la mia tranquillità».

Articolo uscito il 21 marzo 2024 su Maria con te