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Berlino si è offerta ancora una volta come capitale simbolica delle fratture europee e delle loro possibili ricomposizioni. Nei saloni dove si sono incontrate le delegazioni di Stati Uniti, Ucraina e principali Paesi europei, l’aria era quella delle grandi occasioni: non un negoziato formale di pace, ma un passaggio cruciale, un tentativo di avvicinamento che potesse finalmente imprimere una svolta alla guerra in Ucraina. È qui che Donald Trump ha scelto di collocare la sua frase più forte: «Non siamo mai stati così vicini alla fine della guerra». Una dichiarazione che dice molto, forse troppo, sul modo in cui la diplomazia viene oggi raccontata prima ancora di essere compiuta.


Secondo le ricostruzioni convergenti delle principali agenzie internazionali e della stampa europea, i colloqui di Berlino hanno prodotto avanzamenti significativi, soprattutto sul terreno delle garanzie di sicurezza per Kiev. È il punto che, più di ogni altro, ha bloccato ogni tentativo precedente di cessate il fuoco: come impedire che una tregua si trasformi nell’anticamera di una nuova invasione russa? Su questo dossier, Washington avrebbe messo sul tavolo un impegno inedito: un sistema di garanzie multilaterali “alla Nato”, pur senza l’ingresso formale dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica.
È qui che si scioglie quello che per mesi è stato definito “il nodo Nato”. Kiev avrebbe accettato di congelare, se non abbandonare, la prospettiva di adesione, ottenendo in cambio un meccanismo di protezione che impegni Stati Uniti ed Europa a intervenire in caso di nuova aggressione. Un compromesso che ha il sapore della realpolitik e che segna un cambio di paradigma rispetto alla narrativa iniziale della guerra, quando l’ingresso nell’Alleanza era indicato come obiettivo irrinunciabile.
Ma se le garanzie di sicurezza sembrano aver trovato una cornice condivisa, il dossier territoriale resta il vero campo minato. Le aree occupate dalla Russia, dal Donbass alla Crimea, non sono oggetto di un’intesa definitiva. Le delegazioni occidentali parlano di “gestione temporanea dello status quo”, mentre Kiev continua a ribadire che nessuna pace può fondarsi sul riconoscimento delle annessioni russe. È una distanza che Berlino non ha colmato, ma solo circoscritto, rinviandola a una fase successiva del processo negoziale.


La Russia, assente dal tavolo, resta il grande convitato di pietra. Senza un suo coinvolgimento diretto, l’accordo resta un’architettura incompleta, una bozza di pace che ha bisogno dell’avallo di chi, sul terreno, continua a dettare i tempi della guerra. Anche per questo l’entusiasmo espresso da Trump appare, agli occhi di molti osservatori europei, prematuro se non funzionale a una precisa strategia comunicativa.
Non è la prima volta che l’ex presidente americano — tornato a giocare un ruolo centrale sulla scena internazionale — si autoproclama pacificatore globale. È accaduto in Medio Oriente, dove annunci di svolta e promesse di stabilizzazione hanno convissuto con il protrarsi dei combattimenti e delle vittime civili. È accaduto altrove, in contesti dimenticati o marginalizzati, dove la parola “pace” è stata usata come cornice retorica più che come risultato concreto. Il rischio, anche a Berlino, è che la diplomazia venga compressa in uno slogan, che la complessità di un conflitto venga ridotta a una frase a effetto.
Nel frattempo, mentre si parla di cessate il fuoco e di fine delle ostilità, la guerra continua a produrre morti, profughi e distruzione. Le linee del fronte restano instabili, i bombardamenti non si sono fermati, e l’economia ucraina vive sospesa tra la sopravvivenza e la ricostruzione promessa. Proprio la ricostruzione è uno dei capitoli più delicati emersi a Berlino: un piano imponente, miliardario, che chiama in causa governi, istituzioni finanziarie e grandi gruppi privati. Un processo che rischia di trasformare la fine della guerra in una nuova competizione economica, dove gli interessi strategici e finanziari potrebbero prevalere sulle esigenze sociali e democratiche del Paese.


L’Europa, presente con i suoi leader, ha ribadito unità e sostegno a Kiev. Ma dietro le dichiarazioni ufficiali restano differenze profonde: sul rapporto con Mosca, sulla durata dell’impegno militare, sul peso politico da rivendicare rispetto a Washington. Berlino mostra ancora una volta un’Europa coinvolta, ma non protagonista, chiamata a ratificare equilibri definiti altrove.
Alla fine, ciò che emerge dai colloqui non è tanto la pace, quanto una tregua possibile, un equilibrio fragile che necessita di verifiche, di tempi lunghi, di una volontà politica che vada oltre gli annunci. La guerra in Ucraina, come tutte le guerre del nostro tempo, resiste alle scorciatoie narrative. E forse la lezione di Berlino sta proprio qui: tra la diplomazia che avanza a piccoli passi e la politica che proclama traguardi, la distanza resta ampia.
Dire che la fine è vicina può servire a rassicurare le opinioni pubbliche stanche, a rafforzare leadership in cerca di consenso, a dare un senso immediato a negoziati complessi. Ma la pace, quella vera, raramente coincide con il momento in cui viene annunciata. Piuttosto, comincia quando le parole smettono di correre davanti ai fatti.





