A Katmandu, dal 9 settembre il parlamento nepalese brucia, le strade sono invase da giovani in uniforme scolastica, la polizia spara. Non è la trama di un film distopico, ma la realtà di un paese che, in pochi giorni, è diventato il simbolo di una battaglia globale: quella tra il diritto alla libertà di espressione e il potere che cerca di soffocarlo. Tutto è iniziato con un clic mancato: il governo nepalese, guidato dal primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli, ha deciso di bloccare l’accesso a 26 piattaforme social, tra cui Facebook, Instagram e YouTube, accusandole di diffondere odio e fake news. Ma la Generazione Z nepalese ha risposto con una forza inaspettata, trasformando un provvedimento tecnico in una rivolta che ha già cambiato la storia del paese.

Il 4 settembre 2025, il governo nepalese annuncia il blocco di 26 piattaforme social, tra cui i giganti Facebook, Instagram e YouTube. La motivazione ufficiale è la necessità di contrastare l’odio online e la disinformazione, ma la mossa viene subito letta come un tentativo di censura. Le piattaforme, secondo la nuova legge, avrebbero dovuto registrarsi presso il ministero delle Comunicazioni e nominare un responsabile locale, ma solo cinque — tra cui TikTok e Viber — lo hanno fatto. Il resto viene oscurato.

La reazione non si fa attendere: i giovani nepalesi, già frustrati da una disoccupazione giovanile al 20,8% e da un sistema politico percepito come corrotto e nepotista, scendono in piazza. Il 7 settembre, Katmandu si trasforma in un campo di battaglia. I manifestanti, molti in uniforme scolastica, gridano slogan come “Fermate la corruzione, non i social media” e “Combattete la disuguaglianza, non la libertà”. La polizia risponde con manganelli, lacrimogeni e, secondo numerose testimonianze, anche con proiettili veri. Il bilancio è pesantissimo: almeno 21 morti e oltre 300 feriti in pochi giorni



I protagonisti delle proteste sono i giovani della Generazione Z, nati tra il 1997 e il 2012. Sono loro a sentire più di tutti il peso della censura digitale: i social non sono solo strumenti di svago, ma mezzi essenziali per informarsi, organizzarsi e denunciare le ingiustizie. In un paese dove un terzo del PIL dipende dalle rimesse degli emigrati, i giovani si sentono esclusi, ignorati e privati di un futuro.

“Non è solo una questione di social — racconta un manifestante intervistato da Wired Italia — è una questione di dignità. Ci hanno tolto la voce, ma noi non siamo disposti a stare zitti”. Le proteste, inizialmente pacifiche, si radicalizzano quando la polizia apre il fuoco. Gli edifici simbolo del potere vengono dati alle fiamme: il parlamento, la Corte Suprema, le case dei politici, persino la sede del principale gruppo editoriale del paese, Kantipur Publications.

Il 9 settembre, dopo giorni di scontri e pressioni internazionali, il primo ministro Oli si dimette. Ma la sua uscita di scena non placa la rabbia. Anzi, i manifestanti chiedono un cambiamento radicale: “Non vogliamo solo un nuovo premier, vogliamo un nuovo sistema”, urlano per le strade di Katmandu. L’esercito viene schierato per riprendere il controllo della capitale, ma la situazione resta tesa. Gli aeroporti sono chiusi, le carceri assaltate, centinaia di detenuti evasi.

Le organizzazioni internazionali condannano la repressione. Amnesty International parla di “grave violazione del diritto internazionale” e chiede un’indagine indipendente sulle morti. L’ONU esprime shock per l’uso eccessivo della forza dell'amministrazione e invita a un dialogo immediato.

In un paese dove l’80% della popolazione è induista, ma la presenza cristiana è in crescita, la Chiesa cattolica nepalese si trova di fronte a una sfida delicata. Monsignor Paul Simick, vescovo di Katmandu invita alla moderazione. Anche le organizzazioni laiche, come “Hami Nepal”, nate per l’assistenza sociale, si trovano in prima linea.



Il caso nepalese non è isolato. Nel 2023, il paese aveva già bloccato TikTok per “disturbare l’armonia sociale”, e in tutto il mondo si moltiplicano i tentativi di controllare (o censurare) il web. Secondo Barbara Ortutay dell’Associated Press, «la repressione di Internet in Nepal fa parte di una tendenza globale verso la soppressione delle libertà online».

Ma la lezione del Nepal è chiara: quando si tocca la libertà di espressione, soprattutto dei giovani, la reazione può essere esplosiva. E non sempre prevedibile.



Al momento in cui scriviamo, il Nepal è in una fase di transizione. Il blocco dei social è stato revocato, ma la fiducia nel governo è ai minimi storici. Le proteste continuano, anche se con meno violenza. La comunità internazionale osserva con preoccupazione, mentre i giovani nepalesi sembrano aver trovato una voce che non intendono più perdere.

Dietro le barricate di Katmandu, tra i fumogeni e le bandiere issate come simbolo di resistenza, non c’è solo la protesta contro il blocco di Facebook o Instagram. C’è la frustrazione di un’intera generazione, costretta a guardare il proprio futuro svanire oltre i confini del Nepal. I numeri sono impietosi: nel 2024, la disoccupazione giovanile ha toccato il 20,8%, una percentuale che non lascia scampo a chi sogna di costruirsi una vita nel proprio paese. E non è tutto: più di un terzo del PIL nepalese dipende dalle rimesse dei lavoratori emigrati, spesso giovani costretti a lasciare famiglia e affetti per cercare fortuna in Qatar, Malesia o negli Emirati Arabi. Un esodo forzato, una fuga che svuota il paese delle sue energie migliori e alimenta un senso di abbandono e ingiustizia.

A scatenare ulteriormente le tensioni, negli ultimi mesi, è stato il movimento online contro i cosiddetti “Nepo Kids” — i figli dei politici nepalesi, che sui social ostentano uno stile di vita agiato, tra lussi, viaggi e auto di pregio, mentre i loro coetanei fanno i conti con la precarietà. Video e post diventati virali hanno acceso la miccia: “Ogni giovane è costretto a lasciare il Paese. Siamo stanchi della corruzione, vogliamo un futuro qui”, ha urlato un manifestante a Reuters, mentre intorno a lui i cori scandivano: “Fermate la corruzione, non i social media!".

È il paradosso di un Nepal spaccato in due: da una parte, un’élite politica accusata di nepotismo e privilegio; dall’altra, una gioventù che si sente tradita, privata non solo di opportunità, ma anche della possibilità di esprimere il proprio dissenso. Il blocco dei social, in questo contesto, non è stato solo una limitazione tecnica: è stato l’ennesimo segno di un potere sordo, incapace — o non interessato — ad ascoltare chi chiede solo dignità e speranza.