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A documentare quello che può essere definito come un vero e proprio assalto al “quarto potere” c’è anche un video circolato online che mostra agenti israeliani in borghese che smantellavano le attrezzature delle telecamere in una stanza d’albergo di Gerusalemme, che sarebbe da tempo la redazione di Al Jazeera a Est della città. Il gabinetto del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha oscurato la rete per tutto il tempo è sarà così almeno «fino a quando continuerà la guerra a Gaza, perché la loro è una minaccia la sicurezza nazionale», ha detto il premier. Questa operazione è possibile grazie alla legge approvata dal governo domenica che prescrive che il canale tv di Al Jazeera non sia più visibile in Israele e che i suoi siti non siano più raggiungibili dal Paese. Nella legge inoltre è stata ordinata la chiusura degli uffici israeliani di Al Jazeera e la confisca di tutte le attrezzature utilizzate dal suo personale israeliano, tranne telefoni e computer personali: da qui l’irruzione in stile retata odierna. Ogni 45 giorni il governo dovrà decidere se rinnovare o meno la misura.
Al Jazeera è uno dei media più seguiti al mondo al mondo e uno dei pochi media rimasti operativi nella Striscia di Gaza, invasa militarmente da diversi mesi dalle truppe israeliane. Al Jazeera non è un’entità monolitica: dispone sia un canale in lingua araba che uno in inglese, che hanno dirigenze, giornalisti, uffici e programmi diversi. Pur affermando di seguire la stessa linea editoriale, usano toni e approcci anche molto differenti. Da quando è stata fondata in Qatar, nel 1996 l’emittente ha vinto numerosi premi internazionali per alcuni suoi servizi ma al contempo è stata spesso accusata di avere un approccio più benevolo nei confronti del Qatar, che la finanzia parzialmente, e più in generale dei movimenti islamisti. Dal canto suo il Likud, il partito di Netanyahu, la definisce uno «strumento di Hamas dal 2008», e negli ultimi mesi si era già parlato della possibilità che potesse essere chiusa in Israele. La decisione potrebbe complicare i rapporti internazionali tra Israele e il Qatar, che negli ultimi mesi ha lavorato spesso per cercare di mediare tra il governo israeliano e Hamas per cercare di ottenere un cessate il fuoco. Al Jazeera ha dichiarato che la mossa è stata «un’azione criminale» e che l’accusa che la rete minacciasse la sicurezza israeliana è una «menzogna pericolosa e ridicola» che mette a rischio i suoi giornalisti. L’emittente si è riservata il diritto di «perseguire ogni azione legale».
La chiusura di Al Jazeera in Israele è stata criticata anche da diverse organizzazioni per i diritti umani e la libertà d’espressione come l’Association for Civil Rights in Israel (Acri) che ha presentato «una richiesta per annullare il divieto alla Corte Suprema israeliana», mentre la Foreign Press Association, che rappresenta i giornalisti internazionali in Israele, ha chiesto al governo israeliano di «riconsiderare la sua decisione, dicendo che la chiusura di Al Jazeera nel paese è un motivo di preoccupazione per tutti i sostenitori della libertà di stampa». La scelta del governo israeliano guidato da Netanyahu è stata fortemente criticata anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa dall’esercito israeliano
Le ostilità israeliane verso l’emittente hanno radici profonde, esacerbate da dopo il 7 ottobre, ma iniziate l’11 maggio 2022 quando la giornalista Shireen Abu Akleh è stata uccisa mentre stava seguendo un’operazione dell’esercito israeliano in un campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Morì poco dopo essere stata colpita alla testa da un proiettile. Che l’esercito ha definito “vagante” con le autorità di Israele e Palestina si rimpallano la responsabilità e al momento arrivare a una verità condivisa sembra molto complesso. Shireen Abu Akleh aveva 51 anni ed era una giornalista molto nota in Medio Oriente lavorando da 25 anni come corrispondente per Al Jazeera dalla Palestina e si era sempre occupata di raccontare l’occupazione israeliana e le rivolte palestinesi fin dalla seconda Intifada dei primi del 2000. Era lei stessa nata a Gerusalemme e viveva tra Gerusalemme e Ramallah, in Cisgiordania, dove celebre per i suoi reportage. Poiché una parte della famiglia materna è residente nello stato del New Jersey nel Usa, aveva anche la cittadinanza. Per questo il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha indagato sul suo omicidio l’anno scorso ha annunciato di aver avviato una propria indagine sull’uccisione della giornalista. Il governo israeliano aveva definito questo «un grave errore» e cui aveva deciso da subito di non collaborare. Da allora, tuttavia, le indagini sull’uccisione della giornalista sono di fatto ferme. Il giorno in cui fu uccisa Abu Akleh si trovava a Jenin, che si trova nel nord della Cisgiordania, per documentare un’operazione militare israeliana volta ad arrestare «sospetti terroristi» palestinesi. Insieme a lei c’era un altro giornalista palestinese di Al Jazeera, Ali al Samoudi, che fu ferito da un proiettile alla schiena e che in seguito raccontò quello che era successo: «Stavamo andando a riprendere l’operazione militare israeliana quando improvvisamente siamo stati colpiti senza che ci venisse chiesto di smettere di riprendere. Il primo proiettile ha preso me, il secondo Shireen». Un anno fa Navi Pillay, presidente della Commissione internazionale indipendente d'inchiesta delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, e Israele, ha dichiarato martedì che un'indagine ha concluso che le forze di sicurezza israeliane «hanno utilizzato la forza letale senza giustificazione ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani, e intenzionalmente hanno incautamente violato il diritto alla vita di Shireen Abu Akleh. La giornalista indossava anche un giubbotto antiproiettile che indicava chiaramente che faceva parte della stampa. A seguito dell'analisi forense e delle testimonianze di esperti, la commissione ha ritenuto che il colpo mortale sia stato probabilmente sparato da un soldato appartenente all'unità Duvdevan delle forze di difesa israeliane».



