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Quasi in silenzio, lontano dai riflettori, i recenti naufragi nel Mediterraneo raccontano la realtà di chi continua a morire in mare, nonostante gli accordi politici, nonostante l’apparente diminuzione degli arrivi dietro cui ci sono i continui respingimenti in Libia. Una realtà quella che ha portato ad oltre 30 mila morti in dieci anni che Oscar Camps, 62 anni, fondatore della Ong Open Arms, conosce bene. L’organizzazione non governativa spagnola dal 2015 ha portato in salvo oltre 72 mila vita con la sua flotta, nonostante sia stata come altre organizzazioni ostacolata dal governo italiano con blocchi amministrativi e costretta ad adeguarsi a decreti che vedono sempre più allungare i tempi di navigazione raggiungendo porti distanti nel centro e nel Nord Italia.
Camps è tra i finalisti del premio per la cultura Mediterranea 2025 per il suo impegno nella società civile, riconoscimento promosso da Fondazione Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania che da ormai 19 edizioni premia personaggi di fama internazionale che con la loro attività hanno contribuito ad approfondire le diverse espressioni culturali del Mediterraneo.
Il Mediterraneo che per Oscar Camps è stato e purtroppo continua ad essere un mare di salvezza, ma anche un mare di morte.
Nelle ultime settimane sono almeno tre i naufragi documentati avvenuti a largo di Lampedusa, l’isola dove appena la settimana scorsa sono stati recuperati in mare i corpi di tre sorelle di 9, 11 e 17 anni, qualche settimana prima invece i morti erano stati 27. «Ogni volta che si verifica un naufragio si provano dolore e rabbia. Ogni vita persa è una sconfitta collettiva: di politiche che non prevengono, di soccorsi insufficienti, di vie legali che mancano. Ma è anche un ulteriore invito a fare di più: a rafforzare i soccorsi coordinati e a garantire sbarchi rapidi in un luogo sicuro, come prevede la legge del mare. I numeri ci ricordano che il Mediterraneo resta tra le rotte più mortali al mondo per chi cerca protezione».
Dal 2013 sono oltre 30 mila i morti nel Mediterraneo: come evitare altre tragedie?
«Da anni proponiamo attraverso numerosi strumenti una missione di soccorso coordinata a livello europeo: abbiamo anche suggerito ad alcuni eurodeputati di proporla come emendamento al budget europeo. Serve poi la possibilità di uno sbarco rapido: il salvataggio termina solo quando le persone sono a terra in un luogo sicuro. Ritardi e rotte più lunghe aumentano il rischio per chi è stato appena salvato e riducono la nostra capacità di intervenire su altri casi di allarme. Infine servono vie legali e protette: corridoi umanitari, reinsediamento, ricongiungimenti e visti umanitari per togliere persone ai trafficanti e alle rotte mortali».
Perché le navi delle ONG vengono puntualmente ostacolate con blocchi amministrativi?
«Perché una parte delle politiche punta alla deterrenza, anche a costo di limitare chi salva vite. In Italia, il cosiddetto decreto Piantedosi ha introdotto ulteriori ostacoli e dal 2023 sono stati oltre 30 i decreti di fermo notificati alle imbarcazioni umanitarie».
Cosa significa per le navi della società civile dirigersi un porto sicuro lontano dalla scena dei soccorsi?
«In mare place of safety significa un luogo sicuro e vicino dove le persone soccorse possono essere sbarcate al più presto, ricevendo assistenza immediata e non correndo ulteriori rischi. Assegnare porti molto distanti dalla zona del soccorso comporta giorni aggiuntivi di navigazione con persone già estremamente provate e riduce la possibilità di intervenire tempestivamente su altri allarmi in mare».
Quest’anno la maggior parte degli arrivi in Italia è dal Bangladesh: cosa c’è dietro i numeri?
«I dati ufficiali mostrano che nel primo semestre 2025 i cittadini bangladesi rappresentano la quota più consistente degli arrivi via mare. Alla base ci sono diversi fattori: le reti di reclutamento attive lungo la rotta libica e tunisina, l’indebitamento e i costi elevati del viaggio spesso ripetuto più volte. A ciò si aggiunge l’impossibilità per le persone provenienti dal Bangladesh di muoversi regolarmente: per spostarsi devono sempre richiedere un visto, che non è affatto garantito. Un elemento cruciale riguarda infine la dimensione climatica: il Bangladesh è infatti tra i Paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, a fronte di un sostegno internazionale del tutto insufficiente».
A 12 anni dal 3 ottobre 2013 al molo Favaloro di Lampedusa si continua ad assistere alle stesse scene drammatiche, come quella di genitori che piangono i loro figli che durante la traversata non sono riusciti a salvarsi…
«Nessuna madre metterebbe su una barca così pericolosa il proprio figlio se non fosse convinta al cento per cento di fare la cosa migliore. Non si può commentare un dolore così grande come la perdita di un figlio ma si può dire che ancora oggi, nel 225, troppo poco viene fatto per evitare queste tragedie ormai annunciate».
Perché il Mediterraneo è diventato un buco nero? Lo è anche per gli operatori dell’informazione?
«Cosa accade nel Mediterraneo è noto a chiunque voglia vedere quella realtà. Chi non ne parla è chi chiude volontariamente gli occhi, e anche le orecchie».
Più volte le organizzazioni umanitarie hanno lanciato appelli per istituire un meccanismo di ricerca e soccorso a livello europeo, invece si è preferito “esternalizzare” a paesi come Libia, Tunisia e Albania…
«L'esternalizzazione è il più grande investimento della politica estera europea. A oggi si tratta dell’unico vero sistema condiviso tra gli Stati membri e attuato. Si tratta di appaltare agli Stati rivieraschi non europei l’onere di fermare i flussi di persone in movimento a fronte di elargizioni di denaro molto importanti. Un modello contestato perché rischia di indebolire le garanzie della tutela dei diritti umani e i controlli giurisdizionali».



