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Il discorso di Donald Trump alla Knesset, il Parlamento israeliano, è stato un evento che ha suscitato sconcerto e clamore internazionale. Avvenuto all’indomani del fragile cessate il fuoco tra Israele e Hamas — un accordo che, per ora, sembra reggere — l’intervento del presidente americano ha alternato toni trionfalistici, improvvisazioni grottesche e passaggi politicamente ambigui.
Trump ha parlato di “pace eterna” e “fine della guerra”, ma senza mai pronunciare la parola “Palestina”. Ha scherzato mentre alcuni deputati venivano espulsi per aver esposto cartelli con la scritta “Genocidio” e ha invocato la grazia per Benjamin Netanyahu, il premier che egli stesso ha spinto — seppur obtorto collo — a firmare l’accordo.
Un copione che mescola carisma, narcisismo e potenza, ma che solleva interrogativi su quanto il nuovo equilibrio mediorientale sia frutto di una reale strategia o piuttosto dell’imprevedibilità del personaggio Trump.
Ne abbiamo parlato con Agostino Giovagnoli, storico e docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore, esperto di relazioni internazionali e di storia politica del Novecento, che aiuta a leggere questo passaggio non solo alla luce della cronaca ma delle grandi discontinuità che attraversano la democrazia e la diplomazia occidentale.


Professore, il discorso di Trump alla Knesset arriva all’indomani di un fragile cessate il fuoco. Da storico, lo leggerebbe come un gesto di rottura o di continuità con la lunga tradizione americana in Medio Oriente?
«Direi che ha elementi di entrambe le cose. È un fatto importante, ma non ancora “storico” nel senso pieno del termine: non sappiamo se inauguri un percorso nuovo o se resterà un episodio isolato. La politica estera americana ci ha abituato a cambi di rotta repentini, a discontinuità improvvise, e Trump si muove pienamente dentro questa logica. In fondo, ciò che ha realizzato in Medio Oriente era già un progetto di Biden, che però non ha avuto la forza di attuarlo.
Trump ha colto il momento, lo ha personalizzato e lo ha trasformato in un successo mediatico. Ma la sostanza resta quella di una pace imposta dall’alto, più che negoziata dal basso».
Nel suo intervento Trump non ha mai pronunciato la parola “Palestina”. È un lapsus o una scelta deliberata?
«È una scelta precisa, e molto significativa. L’assenza della parola “Palestina” denuncia la mancanza di una visione politica di lungo periodo. Il futuro del popolo palestinese resta la questione irrisolta di ogni tentativo di pacificazione. Questo silenzio trova purtroppo sintonia con la volontà dell’attuale governo israeliano di impedire in ogni modo la nascita di uno Stato palestinese.
Il cessate il fuoco è importantissimo, perché ha interrotto una spirale di violenza terribile, ma resta un accordo fragile. Non è ancora pace, ed è qui che Trump rivela il suo limite: privilegia l’effetto immediato sul progetto duraturo».
In aula, i deputati che esponevano cartelli con la scritta “Genocidio” sono stati espulsi tra gli applausi. Trump ha commentato ironicamente: “Siete stati molto efficienti”. Che lettura ne dà?
«È una scena inquietante. Non tanto per la battuta in sé, che appartiene al suo stile provocatorio, ma per ciò che rappresenta: la compressione del dissenso in nome dell’efficienza. È il sintomo di un cambio di paradigma, non solo in Israele ma in tutto il mondo.
Oggi la democrazia è in crisi, e Trump ne è il simbolo: si muove esplicitamente fuori dal paradigma democratico, quello che dopo la Seconda guerra mondiale aveva fondato un ordine internazionale basato sul diritto dei popoli e non sulla forza. Lui parla di ricostruzione, di affari, di stabilità, ma non di diritti. È un linguaggio che può portare ordine, ma al prezzo di un impoverimento profondo dell’idea di pace».
La richiesta di grazia per Netanyahu ha colpito per la sua disinvoltura. È stata una gaffe o un calcolo?
«Non è un atto di amicizia verso lo Stato di Israele, ma un gesto personale verso Netanyahu. Probabilmente anche un’amicizia interessata: Trump ha imposto la tregua a un premier che non la voleva, e con quella frase sembra volerlo compensare. È una dinamica di potere personale, che scavalca le istituzioni.
Eppure, se pensiamo alle transizioni storiche, anche le amnistie hanno avuto un ruolo: non mi scandalizzerebbe una clemenza che aiutasse un processo di pace vero, come non mi scandalizzerebbe nei confronti dei responsabili di Hamas. L’obiettivo deve essere la pace, non la punizione».


Molti hanno letto il discorso come una riedizione spettacolare dei grandi momenti della diplomazia americana, da Camp David a Oslo. Lei come lo colloca?
«Trump non appartiene a quella genealogia. Camp David e Oslo erano fondati su un’idea di mediazione e di reciprocità. Qui c’è la logica del colpo di scena, del leader che decide da solo.
Per fortuna, però, la storia è più forte dei leader. Trump è profondamente contraddittorio, e questo può persino essere positivo: se fosse coerente fino in fondo con i suoi principi, sarebbe un disastro per la democrazia americana e per la pace mondiale. Le contraddizioni lo limitano, la realtà lo frena, e questa è una buona notizia».
Sul piano interno, che lettura dà della sua mossa? È un tentativo di riscrivere la narrativa americana nel mondo?
«Sì, credo che Trump stia provando a recuperare il mito dell’America come potenza salvifica, quella che “porta la pace”, ma lo fa dentro una logica elettorale. Ogni sua azione estera parla anche al pubblico interno: la base repubblicana, gli evangelici, gli elettori che vogliono un’America dominante ma non interventista.
È un equilibrio difficile, quasi schizofrenico: da un lato “America First”, dall’altro “America messianica”. Due anime che coesistono nella sua narrazione e che rendono il suo messaggio potente ma instabile».


Crede che questa “vittoria” in Medio Oriente possa spingerlo a intervenire anche su altri fronti, come la guerra in Ucraina?
«Può darsi. Il narcisismo e la vanità sono forze reali nella storia, soprattutto quando riguardano leader dotati di poteri enormi. Se questo successo lo spingerà a muoversi anche in Ucraina, ben venga. Ma resta preoccupante che la pace nel mondo dipenda dai tratti psicologici di un singolo uomo più che dalle regole e dalle istituzioni internazionali.
La guerra in Ucraina è uscita dai riflettori, ma continua in modo tragico. È da augurarsi che l’energia e il protagonismo di Trump, per una volta, si traducano in qualcosa di positivo».



