Era cominciata con un pignoramento che sapeva di fantozziano, che si portava via i furgoni, gli arredi, insomma che raschiava un barile senza ormai più neanche il fondo:  si sono presi il niente che c’era. Mancava poco che sfilassero la panchina da sotto le terga di Roberto Donadoni.

Poi è arrivata dal Tribunale la dichiarazione di fallimento del Parma calcio: uno sprofondo da 218 milioni di debiti . Per iscriversi alla B, bisognerebbe pagare o coprire questa fossa della Marianne. Mica facile, più probabile che si riparta da dove si è, da zero, dalla D.

Ma a questo punto il problema non è più e non è solo un campionato da cominciare, una palla da far tornare a rimbalzare, è una vicenda che mette in questione il sistema calcio tutto, a cominciare dai suoi controlli. Perché nella storia del Parma c’è l’acquisto per un euro, da parte di una società con un capitale da 7.500 euro. Non solo c’è un presidente, l’ultimo, quel Giampietro Manenti artefice di questo spericolato acquisto, arrestato con un’accusa che non si limita alla responsabilità di una bancarotta annunciata, ma porta al sospetto che ci sia stato spregiudicato riciclaggio di capitali illeciti. Ombre lunghe, pesanti, che si allungano sul calcio intero. Un calcio che già tante altre volte è stato spettatore di relazioni spericolate con la criminalità e che, anche davanti a segnali chiari – come quell’acquisto fuori mercato – non ha saputo o voluto farsi le domande giuste.