Nelle chat dei genitori si rincorrono messaggi allarmati: «Qualcuno conosce un pediatra disponibile?», «Ho chiamato tutti, ma non c’è posto». È una scena che si ripete da Nord a Sud, con picchi preoccupanti nelle grandi città e nelle province del Nord Italia. Non è solo un’impressione o una lamentela di genitori ansiosi: i dati della Fondazione Gimbe fotografano una realtà ormai critica. All’appello mancano oltre 500 pediatri di libera scelta, il cuore dell’assistenza sanitaria per bambini e ragazzi fino a 13 anni. Una carenza che si somma al progressivo invecchiamento della categoria e a un ricambio generazionale che fatica a decollare.

I dati parlano chiaro: al primo gennaio 2024, in Italia mancano almeno 502 pediatri di libera scelta, figure fondamentali per l’assistenza ai bambini e ragazzi fino ai 13 anni. In termini percentuali, si tratta di circa un pediatra su dieci in meno rispetto al fabbisogno stimato. Le conseguenze si vedono ogni giorno: studi saturi, famiglie costrette a rivolgersi a medici di base che non hanno una formazione pediatrica specifica, e bambini che rischiano di restare senza un punto di riferimento sanitario nei primi e delicati anni di vita.

Il problema, però, non è distribuito in modo omogeneo lungo la Penisola. Secondo l’indagine Gimbe, il Nord Italia è l’area più colpita. Lombardia, Piemonte e Veneto, da sole, concentrano oltre il 75% delle carenze. In queste regioni, in alcuni casi, ogni pediatra segue più di mille piccoli pazienti, un carico ben oltre il limite massimo stabilito dai contratti nazionali, che oggi si ferma a 850 assistiti per pediatra. Il fenomeno è particolarmente grave nelle province di frontiera e nelle aree interne, dove le distanze tra gli studi si fanno chilometriche e le alternative praticamente non esistono.



Ma come si è arrivati a questa situazione? Una prima risposta sta nel calo delle nascite, che se da un lato riduce progressivamente il numero complessivo di bambini, dall’altro rischia di alimentare un’illusione: quella che servano meno pediatri. In realtà, spiegano gli esperti di Gimbe, il calcolo del fabbisogno deve tenere conto non solo dei neonati, ma di tutta la popolazione infantile fino ai 13 anni, che in Italia resta numerosa. Secondo le ultime stime, al primo gennaio di quest’anno, nel nostro Paese ci sono quasi 2 milioni e mezzo di bambini sotto i sei anni e oltre 4 milioni tra i sei e i tredici anni.

A fronte di questi numeri, il contingente attuale dei pediatri di famiglia non basta. E il quadro è destinato a peggiorare. Il motivo? L’età media dei pediatri è sempre più alta. Tra il 2023 e il 2026, quasi 1.800 professionisti raggiungeranno i 70 anni, il limite previsto per la pensione. In altre parole, nei prossimi due anni potremmo perdere quasi un quarto dei pediatri attualmente in servizio, senza che vi sia certezza sul ricambio generazionale.



Il sistema, infatti, soffre da tempo di una programmazione carente. Mancano piani precisi per formare un numero adeguato di specialisti in pediatria che scelgano la strada della libera professione convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale. Troppi giovani medici, dopo la specializzazione, optano per il lavoro ospedaliero o per percorsi alternativi, lasciando sguarnita l’assistenza sul territorio.

A complicare il quadro ci sono le normative vigenti. L’iscrizione al pediatra di libera scelta è obbligatoria fino ai sei anni, mentre dai sei ai tredici anni è facoltativa. Dopo i quattordici anni, si passa automaticamente al medico di base. Tuttavia, spiega Gimbe, molte famiglie scelgono di mantenere il pediatra anche oltre i sei anni, soprattutto in presenza di fragilità o patologie croniche. Questo, di fatto, aumenta il carico di lavoro sui pediatri già operativi, contribuendo a gonfiare le liste d’attesa e a saturare gli studi.

Un altro nodo critico riguarda il sistema delle cosiddette “zone carenti”, ossia le aree in cui le Asl possono bandire nuovi incarichi per coprire le necessità di assistenza pediatrica. Tuttavia, questo meccanismo si basa su un criterio ritenuto ormai obsoleto: si calcola la carenza considerando solo i bambini tra zero e sei anni, con un rapporto di un pediatra ogni 600 bambini. Di conseguenza, il fabbisogno reale risulta sottostimato, soprattutto in quelle regioni dove molte famiglie scelgono di prolungare il rapporto con il pediatra ben oltre il sesto compleanno.

Eppure, non tutte le regioni vivono la stessa emergenza. In alcune aree del Centro-Sud, come l’Umbria, la Puglia, la Sicilia o le Marche, i dati sono più rassicuranti. Qui il rapporto tra assistiti e pediatri è ancora sotto la soglia critica, e le carenze, almeno per il momento, risultano contenute. Ma è un equilibrio fragile, destinato a rompersi se non si interviene per tempo.



Gli esperti della Fondazione Gimbe lanciano l’allarme: senza una riforma strutturale, il rischio è di vedere acuirsi le diseguaglianze territoriali, con famiglie che nei prossimi anni potrebbero trovarsi senza un riferimento pediatrico, soprattutto nelle aree più periferiche o montane. Tra le proposte sul tavolo c’è un adeguamento dei massimali, portandoli progressivamente fino a 1.000 assistiti per pediatra, e una revisione dei criteri per individuare le zone carenti, includendo tutta la fascia d’età fino ai tredici anni. Ma da sola, questa misura non basta.

Per Gimbe serve un intervento più ampio, che guardi anche all’organizzazione dei servizi sul territorio. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con le Case di Comunità e i servizi di prossimità, può rappresentare un’occasione per rafforzare l’assistenza pediatrica integrandola in un sistema più moderno ed efficiente. A patto, però, di investire in modo adeguato nella formazione dei giovani medici, prevedendo borse di studio sufficienti e percorsi che incentivino l’ingresso nella medicina territoriale.

L’alternativa, avvertono gli esperti, è un futuro in cui i pediatri saranno sempre meno, sempre più anziani e oberati di lavoro, con un sistema che rischia di collassare proprio su uno dei fronti più delicati: la salute dei bambini.