Certo, mentre indossava il pettorale da sciatore numero 25 non poteva immaginare che sarebbe salito agli onori degli altari proprio nell’anno giubilare che porta quella cifra. Esattamente a cento anni dalla sua morte, quel 4 luglio 1925, dopo sei giorni di fulminante agonia. «Il giorno più bello», per lui, come aveva scritto, perché quello in cui avrebbe incontrato il Signore.

Pier Giorgio Frassati era uno sportivo, uno studente, un appassionato di politica e di amicizia, un credente non bigotto. Membro della Fuci, dell’Azione cattolica, con la tessera in tasca del Partito popolare di don Luigi Sturzo e quella della Società dei Tipi loschi, che lui stesso aveva fondato per cementare l’amicizia con i suoi compagni e le sue compagne di strada. «Robespierre», il suo nome di battaglia, come l’incorruttibile rivoluzionario francese, «lo scalatore terribile», o «l’uomo delle otto beatitudini», come lo aveva chiamato Giovanni Paolo II prima ancora di essere Papa e di beatificarlo, nel 1990, «fra Girolamo», pensando al Savonarola, da terziario domenicano… Nato a Torino il 6 aprile 1901 in una famiglia dell’alta borghesia torinese, il padre senatore e poi ambasciatore a Berlino, la madre pittrice affermata, vive in pieno le ansie, le paure e le speranze del suo tempo. Tra la casa del capoluogo piemontese e quella di famiglia a Pollone (Biella), forgia la sua personalità e si avvicina alla fede. Puntando «verso l’alto», come scrive lui stesso sulla foto che lo ritrae in scalata, abbarbicato a una roccia, in Val di Lanzo, appena un mese prima della morte.

«Ti sia questo libro, anche negli anni venturi, guida e conforto sulla via dell’onestà, della carità e della purezza», gli aveva scritto sua madre regalandogli, nel Natale 1913, l’Imitazione di Cristo. E lui l’aveva presa in parola dedicandosi alla preghiera, alle buone letture, alla ricerca di Dio. Senza mai perdere la gioia e la spensieratezza, anche quando l’aria in casa era tesa o quando diventavano gravose le situazioni internazionali e nazionali. Nulla gli era estraneo delle ansie dell’umanità. Fin da bambino, quando, raccontano le cronache, si era messo a mangiare con un piccolo lasciato in un angolo per via di una grave eruzione cutanea, era attento alle esigenze degli altri.

«È santo non perché abbia fatto cose eclatanti», spiega Roberto Falciola, vicepostulatore, «ma perché ha vissuto l’ordinarietà della sua esistenza in maniera straordinaria. Vivificata, dominata e nutrita dall’esperienza dell’amore di Dio che lui faceva quotidianamente nella preghiera e nell’ascolto della Parola, nell’Eucaristia quotidiana e nell’incontro coi fratelli e le sorelle».

Ed è «questa ordinarietà che stupisce i ragazzi che vengono qui in pellegrinaggio», spiega don Luca Bertarelli, parroco di Pollone. Ogni anno in migliaia visitano Villa Ametis, quella fatta costruire dal nonno materno. All’ombra della grande sequoia si siedono, ascoltano e domandano. Stupiti dal rivedere, in quel giovane morto cento anni fa, i loro stessi dubbi, le fragilità e le forze, i sogni e le turbolenze. «Sono colpiti, soprattutto, dal rapporto con la famiglia, dal grande amore che Pier Giorgio nutriva per i genitori, nonostante le incomprensioni. Qui sono scorsi fiumi di lacrime sincere da parte di questi giovani che, nell’ascoltare e nel toccare con mano la vita di Frassati, hanno avuto l’opportunità di confrontarsi anche con sé stessi».

Al primo piano della grande villa di famiglia, portata da Torino, c’è la camera da letto dove Pier Giorgio è morto. Sul suo letto, decine di bigliettini di preghiera e di richieste di grazie. Ci sono i suoi oggetti, il piccone con il quale si arrampicava, i suoi libri, la sua pipa. C’è un piccolo altare, con i candelabri, accesi per la sua veglia funebre, che oggi ardono per la preghiera collettiva. E sembra di vederlo, Pier Giorgio, arrampicarsi sul campanile della parrocchia per suonare a festa le campane e annunciare, lui che lo aveva saputo tra i primi per via dell’incarico paterno, la fine della Prima guerra mondiale. Sembra di ascoltare il passo degli zoccoli di Parsifal, il suo cavallo nero, fermarsi davanti all’uscio della chiesetta per consentire al suo cavaliere di farsi il segno della croce. Oppure lo si immagina al santuario di Oropa, ai piedi della Madonna nera di cui tanto era devoto e che Giovanni Paolo II volle riprodurre nel Giardino Segreto delle Ville pontificie a Castel Gandolfo.

Nel piccolo cimitero di Pollone, prima di partire per l’Argentina, si era recato anche Mario Bergoglio, il padre di papa Francesco, che, vivendo vicino alla parrocchia della Crocetta, a Torino, lo aveva conosciuto e stimato. Nel 1990 la salma, in occasione della beatificazione, è stata traslata nel Duomo di Torino. Ma migliaia di giovani lo hanno potuto salutare durante il Giubileo di agosto quando è stato trasferito a Roma, a Santa Maria sopra Minerva, la bara deposta davanti alle spoglie di santa Caterina, di cui Pier Giorgio era grande estimatore. Un gesto di generosità della famiglia nei confronti di chi si era preparato alla canonizzazione del 3 agosto poi spostata a settembre.

«Tanti non potevano permettersi un altro biglietto per tornare adesso», spiega la nipote Wanda Gawronska, «e allora abbiamo pensato di portare Pier Giorgio a Roma per il Giubileo dei giovani». Chi ha potuto, invece, ha rimandato la partenza per essere qui, in piazza San Pietro, a rendere omaggio a un “coetaneo” che aveva scoperto il segreto della gioia vera, il radicamento in Cristo, e che – sottolinea Falciola – «muore nell’Anno Santo al quale si era preparato con cura. E per il quale scriveva un augurio valido anche oggi. Quello della pace come dono vero dell’anno giubilare».