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Italy's Prime Minister Giorgia Meloni during a G20 Leaders' Summit at the Nasrec Expo Centre in Johannesburg, 22 November 2025. ANSA/FILIPPO ATTILI/Presidenza del Consiglio +++FOTO DIFFUSA DALL'UFFICIO STAMPA - USARE SOLO PER ILLUSTRARE OGGI LA NOTIZIA INDICATA NEL TITOLO - NON ARCHIVIARE - NON VENDERE - NON USARE PER FINI NON GIORNALISTICI - NPK+++
Più che un G20, lo chiamano ironicamente “G20 meno 3”. E quei tre – Xi Jinping, Vladimir Putin e soprattutto Donald Trump – sono esattamente i pesi massimi che nessuno avrebbe voluto vedere assenti dal vertice sudafricano. L’assenza che fa più rumore è quella del Presidente americano. E non solo perché nel 2026 gli Stati Uniti assumeranno la presidenza di turno: qui siamo davanti a un gesto politico calcolato con il cinismo che le grandi potenze esercitano quando possono permetterselo. Del resto il tycoon ha sbeffeggiato le Nazioni Unite, figurarsi un “semplice” G20.
La chiamano già “diplomazia della sedia vuota”. È la strategia con cui Trump segnala, platealmente, che non riconosce al summit alcun primato nel governo del mondo. Non è una novità: la sua diffidenza verso il multilateralismo ha precedenti ben noti. Preferisce patteggiare personalmente, preferibilmente in qualche sua residenza privata, con l’asse che sta dall’altra parte del Pacifico. Ma oggi quell’atteggiamento pesa di più, perché arriva in un contesto dove il resto del Pianeta prova, faticosamente, a tenere insieme i pezzi di un ordine globale incrinato.
Il paradosso è che, mentre ci si ostina a celebrare il rito di un G20 sempre più azzoppato, il vero terreno negoziale si è spostato altrove: a Ginevra. È lì che Stati Uniti e Unione europea stanno lavorando a un piano di pace sulla guerra in Ucraina. E le indiscrezioni che circolano hanno del clamoroso: il documento in inglese dei 28 punti che mette in ginocchio Zelensky, da integrare (o forse edulcorare) con quello europeo pare sia la traduzione quasi letterale di un testo originariamente redatto in russo. Se confermato, significherebbe che Vladimir Putin ha lasciato la sua impronta sulle condizioni del negoziato ancor prima che la diplomazia occidentale si sedesse al tavolo. Il tutto sulla pelle di 500 mila ucraini morti per la libertà del proprio Paese.
Eppure, nonostante tutto, il G20 non è solo una foto opportunity. Senza questo minimo sforzo di multilateralismo – anche monco, anche frustrante – la logica di potenza si rafforzerebbe ancora di più. Il forum che riunisce le 20 maggiori economie emergenti e avanzate rappresenta l’85% del Prodotto interno lordo mondiale, il 75% del commercio globale, il 60% della popolazione del pianeta. È ancora la fotografia più fedele dei rapporti di forza economici del nostro secolo.
L’Unione europea arriva al vertice sudafricano con le sue contraddizioni ma anche con il peso del suo mercato unico: il più grande al mondo, il 15% del Pil globale. È rappresentata da Ursula von der Leyen e António Costa, affiancata da tre Stati membri (Francia, Germania, Italia), e con Spagna e Paesi Bassi invitati come osservatori. Numeri importanti, ma insufficienti a colmare i vuoti lasciati da Xi, Putin e Trump. Il Sudafrica ha scelto un tema nobile – “Solidarietà, uguaglianza, sostenibilità” – e prova a orientare la discussione verso questioni vitali: resilienza alle catastrofi, debito dei Paesi poveri, transizione energetica, sfruttamento equo dei minerali critici. A questo si aggiunge la campagna inaugurata nel 2024 da von der Leyen e dal presidente sudafricano Ramaphosa per diffondere le energie rinnovabili in Africa, che culminerà proprio alla vigilia del G20 del novembre 2025. È un’agenda ambiziosa, e necessaria. Peccato si tratti di cose cui a Trump importa un fico secco.
Il problema è che tutto questo rischia di diventare un esercizio di volontarismo, se i grandi assenti decidono di far correre il mondo su binari paralleli. Uno è quello ufficiale, del multilateralismo in difficoltà. L’altro – più segreto, più cinico – passa per Ginevra, dove i veri equilibri globali sembrano ormai trattati lontano dai riflettori. E le sedie vuote di Trump, Xi e Putin, più di ogni discorso, raccontano esattamente questo.



