Marco sedeva nel banco dietro il mio, insieme al suo amico Andrea. Entrambi alti e robusti, finivano sempre in ultima fila. Era il 1998 ed eravamo in quinta C, ultima aula in fondo al corridoio, terzo piano del Messedaglia, storico liceo scientifico di Verona. Allora tutti noi sapevamo che suo zio era stato assassinato dalla mafia, anche se mai in classe se ne era discusso. Eppure ci avrebbe insegnato molto di più che calcolare forsennatamente limiti e derivate o mandare a memoria terzine dantesche. Anch’io, al pari degli altri, conoscevo a grandi linee la vicenda. I particolari, però, li ho appresi solo adesso, leggendo, con molta attenzione e altrettanto coinvolgimento, il bel libro Per sempre fedele, un racconto sotto forma di diario, scritto dallo stesso Marco e da sua moglie Valentina Rigano, giornalista. «Ho un’immagine di allora che resta viva nella mia memoria, come un’istantanea che non sbiadisce», racconta il mio compagno, che all’epoca dei fatti aveva quattro anni e mezzo. «Eravamo riuniti per un pranzo di famiglia, io giocavo con una palla di stoffa, poi lo zio mi ha preso in braccio per raccontarmi una storiella. È l’ultimo ricordo che ho di lui».

Mario D’Aleo, fratello del papà di Marco, Antonino (per tutti Nino), era un capitano dei carabinieri. Un metro e novantadue, folti baffi, sguardo fiero, con un passato da calciatore nelle giovanili della Lazio. Di origini romane, si era formato all’Accademia di Modena, due anni di studi  ̶  con anfibi troppo stretti e uniforme troppo larga  ̶  per imparare regole e ferrea disciplina: in cortile, in mensa, in camerata, in aula. Un ulteriore biennio sui banchi della Scuola Ufficiali di Roma ed ecco gli incarichi iniziali: prima istruttore a Velletri, poi addetto alla vigilanza nel carcere di Pianosa.

L’arrivo a Monreale

La sua vita cambia repentinamente rotta nel 1980, quando, per ordini superiori e a soli 26 anni, viene chiamato ad assumere il comando della compagnia di Monreale, a Palermo, terra di sangue e criminalità, girone infernale che include le zone di San Giuseppe Jato, Altofonte, San Cipirello, Piana degli Albanesi. Un territorio roccaforte dei Corleonesi, clan che in quegli anni stava emergendo, sbaragliando gli avversari a suon di piombo, sotto la guida dello spietato boss Totò Riina.

Le indagini su droga e appalti

La valigia che il comandante porta con sé nell’approdare sull’isola è, dunque, carica di responsabilità, pensieri e, forse, anche di funesti presagi. È, infatti, chiamato a prendere il posto del precedente comandante, Emanuele Basile, freddato dai killer di Cosa nostra durante la festa paesana, per le delicate indagini che stava conducendo. Mario, pur conscio dei rischi, non può e non vuole tirarsi indietro. Così, supportato dai fedeli collaboratori Giuseppe Bommarito e Pietro Morici, riprende in mano documenti e faldoni per continuare il lavoro del predecessore. In sinergia con i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inizia a collegare informazioni e a ricostruire trame. Approfondisce legami, relazioni, interessi economici. Indaga su appalti, riciclaggio, traffico di eroina. Comincia a dare fastidio alle cosche, che non vedono di buon occhio chiunque provi a interferire con il cuore nero dei loro affari. Il comandante mette anche le mani sulla famiglia Brusca  ̶  il boss Bernardo, allora latitante, la moglie Antonina, i figli Emanuele e Giovanni  ̶ , padrona dei traffici criminali della zona. Dà loro del filo da torcere, insiste con le perquisizioni. Infine, fa arrestare il giovane Giovanni per favoreggiamento, conscio che nella sua auto viaggiava proprio Riina, a quel tempo latitante. Interrogato in caserma, il ragazzo minaccia con arroganza l’ufficiale: «Attento, capitano, stia molto attento». Un ulteriore avvertimento, che si somma a quelli giunti nei mesi precedenti. «Non perdere altro tempo, Mariù! Se tira brutta aria vieni via», lo aveva esortato durante una telefonata Nino, preoccupato per il crescente pericolo. Ma a questo punto la condanna di Mario è già stata firmata.

L’agguato e la sentenza

È il 13 giugno 1983, sono quasi le otto di sera. L’aria è calda, soffia uno scirocco leggero. Una Ritmo blu, con a bordo D’Aleo, Morici, Bommarito, lascia la caserma diretta in via Cristofaro Scobar, dove il capitano vive con la compagna Antonella, che avrebbe dovuto sposare di lì a poco. Non appena il comandante scende dall’auto, scatta l’agguato. Tre killer, sbucati da una Fiat 131, sparano più colpi con almeno quattro armi. Per tutti e tre i carabinieri la morte sarà pressoché istantanea, avendo riportato – come avrebbe poi chiarito l’autopsia  ̶  gravi lesioni alla testa e al torace. «Mio fratello non guardava in faccia nessuno. Non era disposto a chiudere un occhio in un territorio in cui i mafiosi avrebbero voluto che li chiudesse entrambi. Così hanno provveduto loro: glieli hanno chiusi per sempre», ha dichiarato Nino, che avrebbe poi fatto carriera in polizia, lavorando a Verona, Padova, Sondrio, Mantova e distinguendosi in operazioni di rilievo nazionale. Tre mesi dopo la strage viene conferita a D’Aleo la Medaglia d’oro al valor civile alla memoria.

Tuttavia, le indagini sul delitto stentano a decollare, tra intoppi e rallentamenti. Dopo molti anni, le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia danno un impulso decisivo, portando alla sentenza emessa il 16 novembre 2001 dalla Corte d’Assise di Palermo, che condanna i mandanti, tra cui Riina, e gli esecutori del triplice omicidio.

Testimone di legalità

In quinta C, in quella primavera inoltrata, alla vigilia della maturità, la vicenda dell’ufficiale avrebbe insegnato il senso del dovere, i valori di tenacia, coraggio, perseveranza. Onestà e fedeltà.

Sarebbe bello, e utile, che i ragazzi, in tutte le scuole di Verona, Roma, Palermo e dell’Italia intera, conoscessero la storia di Mario D’Aleo, servitore dello Stato, eroe silenzioso, testimone di legalità e giustizia. È sulla scia del suo esempio che oggi Marco comanda la compagnia dei carabinieri di Moncalieri. Ogni giorno cerca di onorare quella divisa scura, con gli alamari, i bottoni d’argento e la fiamma dorata, proprio come fece suo zio, molti anni fa.