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Un giornalista nell’inferno di Sarajevo. Una bambina in un orfanotrofio della capitale bosniaca assediata dai serbi. Un incontro di anime, una scintilla che diventa paternità, affetto, amore, famiglia. Capita che l’uomo, durante un servizio del Tg, la sollevi e la prenda in braccio, che lei smetta di piangere e che ricominci a strillare quando la rimette nella culla. Che quel pianto rimanga incollato nella testa dell’inviato fino a quando non deciderà di prenderla in affido e poi in adozione.
Una delle scene centrali è quella del dialogo con il cameramen: il giovane giornalista gli confessa di essere stato toccato dentro da qualcosa, di essere turbatissimo da quella bambina che gli sorride dal fasciatoio mentre un’assistente le sta cambiando il pannolino. «Io me la porterei via», dice al collega (che per la cronaca è Antonio Fabiani).


E il cameramen secco: «E perché non te la porti?». Già: perché? È il primo romanzo di Franco Di Mare, che i telespettatori conoscono bene soprattutto come garbato conduttore di Unomattina e di altri programmi, ma che quando si spengono le telecamere continua a rimasticare il suo passato di giornalista televisivo di guerra paracadutato nei punti più critici del globo. Il romanzo ha dentro di sé un ritmo narrativo serrato e una struttura simile a quella di una sceneggiatura cinematografica. Non a caso Beppe Fiorello, che se ne è innamorato subito, ha sfruttato questo impianto per trarne una fiction di successo.
Il grande fondale di questo libro è Sarajevo, il gorgo in cui è precipitata la storia dopo la caduta del muro di Berlino. La città dolente che ha aperto la strada al «nuovo disordine mondiale»: il ritorno dei nazionalismi, la spirale separatista, la violenza, la pulizia etnica, la guerra, la fame, i cecchini appostati nelle trincee sulla collina che dispensano vita e morte come le parche, la solidarietà mai mancata anche nei momenti più bui (lepagine dedicate al cardinale Vinko Pulijc sono tra le più vibranti del romanzo). Di Mare aveva già raccontato questa ferocia in una raccolta di testimonianze (Il cecchino e la bambina, Rizzoli) adoperando l’unico strumento possibile in grado di rendere meglio della telecamera: la scrittura nuda e cruda. Di Mare aveva fatto un salto in avanti: una prova letteraria (si intitola Non chiedere perché, Rizzoli). Forse il solo modo per raccontare una storia così personale: l’adozione di sua figlia Stella.
«Ho aspettato che lei crescesse», ci dice nel salotto mentre con la moglie Alessandra passa in rassegna le foto dell’album di Stella, «poi le ho chiesto se le andava che io scrivessi questa storia. Un romanzo era l’unico modo di mantenere vivi certi ricordi: se non avessi fissato i punti essenziali si sarebbe affievolito, quel poco di fantasia che ho aggiunto è come il collante che metteva insieme i tasselli». Di Mare ci ha aperto le porte della sua casa romana e della sua famiglia per amore di testimonianza («se mi fossi fermato a riflettere sulle difficoltà mi sarei fatto prendere dallo scoramento e chissà a quest’ora Stella dove sarebbe») e anche per spiegare come questo libro sia l’unica, vera eredità che possa lasciare a Stella: «Non c’è nulla che abbia più valore di qualsiasi eredità materiale: è la sua storia, la vicenda di una bambina straordinariamente voluta e amata».


I bambini adottati, in fondo, sono nati due volte. Di questo è consapevole anche Stella, occhi neri incorniciati da capelli neri, oggi maggiorenne, studentessa appassionata di Dante che però ha preferito iscriversi a Economia e commercio. Alessandra racconta che il loro, nonostante sia figlia unica, non è un rapporto simbiotico, conflittuale, come spesso avviene tra mamma e figlia. «Lei è equilibrata, certamente più matura di molte ragazze della sua età, più paziente di tante sue coetanee e forse anche di me». E il papà Franco, prima di congedarci, sottolinea un ultimo aspetto del suo romanzo: «La bambina regala a quell’uomo una visione diversa, ottimista, fiduciosa del mondo... Non è il giornalista che salva la bambina da un destino oscuro. Ma è la bambina che salva la vita al giornalista».



