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L'Oxford English Dictionary ci consegna un termometro inquietante del nostro tempo: "rage bait", l'esca della rabbia, è la parola del 2025. Ma la vera domanda che dovremmo porci è: abbiamo ancora “bisogno” di esche, o la rabbia è già diventata l'acqua in cui nuotiamo ogni giorno?
Dall’osservatorio di Fondazione Carolina, che da anni lavora con ragazzi, famiglie e scuole per contrastare il cyberbullismo e promuovere una cittadinanza digitale consapevole, osserviamo quotidianamente come il linguaggio pubblico – dai social media ai talk show, dalla politica alla cronaca – sia ormai impregnato di rabbia. Non serve più innescarla: è già lì, pronta a esplodere alla minima scintilla.
Il "rage bait" funziona proprio perché trova terreno fertile in una società dove l'indignazione è diventata moneta corrente, dove lo scontro prevale sul dialogo e dove la complessità viene schiacciata dalla semplificazione violenta. I nostri ragazzi crescono immersi in questo ecosistema tossico, dove l'algoritmo premia chi urla più forte e dove moderazione e sensibilità sono scambiate per debolezza.
Eppure possiamo coltivare una speranza: che questa "esca" inizi a non raccogliere più pesci. Che sempre più persone – soprattutto le giovani generazioni che accompagniamo – imparino a riconoscere i meccanismi manipolatori, a disinnescare le provocazioni, a scegliere il pensiero critico invece della reazione emotiva immediata.
L'educazione digitale non è più un'opzione: è un'urgenza educativa. Insegnare a discernere, a respirare prima di commentare, a privilegiare la relazione rispetto alla performance rabbiosa è una strada obbligata, se vogliamo invertire la rotta.
Un altro modo di stare online è possibile, ma richiede impegno, coerenza e coraggio adulto.
La parola dell'anno ci interpella: vogliamo continuare a essere pesci che abboccano, o navigatori pensanti capaci di costruire comunità più umane, anche nel digitale?





