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«Basta! Non possiamo accettare che ci si abitui alla guerra come compagna della storia umana. Basta guerre, con i loro dolorosi cumuli di morti! Signore, ascolta il nostro grido!». È «il grido della Terra» di cui si fa portavoce Papa Leone XIV nel suo primo discorso pubblico all’esterno del Vaticano. Sullo sfondo svetta il Colosseo, ai piedi dell’Arco di Tito sono riuniti – chi in abiti variopinti, chi in tuniche austere – imam e teologi musulmani sunniti e sciiti, rabbini ebrei, vescovi, pastori ed esponenti delle diverse confessioni cristiane, hindu e monaci buddisti, saggi delle religioni orientali, intellettuali del pensiero laico e umanista, per la cerimonia finale dell’incontro internazionale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio dal 26 al 28 ottobre a Roma. Tre giorni in cui si è parlato della geografia della sofferenza e della geografia della speranza, di chi soffre a Gaza, Sudan, Congo, Ucraina, di chi è dimenticato ad Haiti o in Afghanistan, della forza debole della preghiera e del dialogo interreligioso, del disarmo nucleare e del futuro dell’Africa. Il giorno dell’inaugurazione, Kondo Koko, sopravvissuta all’atomica di Hiroshima, ha trasmesso un messaggio fondamentale a partire dalla sua sofferenza: «È la guerra che dovremmo odiare, mai le persone!». Il Papa riassume il senso dei tre giorni: «Facciamo eco al desiderio di pace dei popoli. Ci facciamo voce di chi non è ascoltato e non ha voce. Bisogna osare la pace!».
Anche Marco Impagliazzo, come Leone XIV, ricorda Assisi ’86, citando l’invito di Giovanni Paolo II, quando disse «la pace è un cantiere aperto a tutti». Era il 27 ottobre 1986, Wojtyla invitò i leader religiosi del mondo ad Assisi a pregare per la pace, mai più l’uno contro l’altro, ma l’uno accanto all’altro. Fu un momento storico, una svolta nei rapporti tra le religioni. Nello “spirito di Assisi”, anno dopo anno, sono continuati questi incontri di preghiera e dialogo, che hanno creato un clima di amicizia tra i leader religiosi e hanno accolto tante domande di pace. E poco dopo, un applauso delle migliaia di persone raccolte davanti al Colosseo accoglie l’annuncio che l’edizione 2026 del meeting internazionale sarà nella città di san Francesco. Spiega il presidente di Sant’Egidio: «Parlare di pace è resistere al male della violenza e della guerra mediante la parola, la preghiera e l’amicizia. In un mondo dove la soluzione dei conflitti sembra essere solo la guerra, le parole perdono valore e vengono umiliate. Si crede che sia inutile parlare, parlarsi. Per noi no: le parole contano, anche perché siamo tutti figli di una Parola». Negli incontri dei tre giorni, «abbiamo sentito il bisogno di ascoltarci, parlarci e conoscere perché l’uomo diventa nemico di chi non conosce. Per amare bisogna conoscere». Significative sono le immagini dei leader religiosi che, dopo aver pregato in luoghi diversi ciascuno secondo la propria tradizione, giungono in processione, ai piedi del Colosseo, camminando insieme. Continua Impagliazzo: «Le nuove generazioni devono sapere che tutto è perduto con la guerra e mai dimenticare!». Soprattutto, ripete, «che la pace è sempre possibile. Sì, perché i poveri e gli umili della terra guardano a noi con speranza! Lo spirito di Assisi è una grande responsabilità: siamo diventati, negli anni, religioni più sorelle e speriamo che i popoli divengano più fratelli. Abbiamo cercato di non dimenticare nessuno, con la preghiera e con la memoria».
Ed è significativo che, di fronte ai leader religiosi e politici, Sant’Egidio faccia parlare un rifugiato, a nome dei tanti che implorano la pace. Omer Malla Ali ha 31 anni, è un medico e viene dal punto in cui si incontrano il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco, il Sudan, «un luogo di bellezza, di storia e di gentilezza, oggi lacerato da una guerra dimenticata tra l’esercito nazionale e i paramilitari». Ricorda la mattina in cui svegliò con il suono dei jet da combattimento, delle bombe e degli spari: «Il cielo, un tempo azzurro e pieno di promesse, si è oscurato di fumo». Fuori la morte ovunque: corpi senza vita per le strade, persone che piangevano, correvano con nient’altro che la paura tra le mani. La radio diceva: «Ci vorranno solo poche ore o pochi giorni per controllare la situazione». Ma quelle “poche ore” sono ormai diventate più di due anni e mezzo di guerra e di perdita, perché la guerra – si è detto più volte a “Osare la pace” – è come una droga, pensi di poter smettere quando vuoi, ma poi si diventa dipendenti. «Le Forze di Supporto Rapido – continua Omer Malla Ali – andavano di casa in casa, uccidendo, prendendo tutto ciò che volevano. Hanno portato via oro, denaro, sogni, lasciando solo silenzio e sangue». In fuga da Khartoum a Wad Madani anche lì, nel dicembre 2023 tornano «la stessa violenza, le stesse urla, la stessa paura»: «Hanno ucciso, arrestato, violentato donne, anche bambine, talvolta davanti alle loro famiglie. La città è diventata un luogo di morte». Quando in guerriglieri hanno iniziato a cercare i medici, «ho capito che la mia vita era in pericolo. Ci hanno dato due scelte: lavorare per loro o morire. Così ho preso la decisione più difficile della mia vita: fuggire dalla mia patria». Nuovamente un lungo e doloro viaggio, lasciando tutto, su un piccolo carro trainato da animali, attraversando un fiume in barca, camminando per ore sotto il sole cocente. «Finalmente – commuove– ho raggiunto il confine con l’Etiopia: esausto, affamato, ma vivo».
Profugo in Etiopia, conosce Sant’Egidio: «Non mi hanno chiesto chi fossi o da dove venissi, hanno semplicemente aperto le braccia, mi hanno restituito la speranza». È giunto in Italia con i corridoi umanitari della Comunità: «Per la prima volta dopo molti anni, dormo senza paura. Per la prima volta, posso di nuovo sognare. La pace – dice ringraziando – non è solo l’assenza di guerra, ma la presenza dell’amore». Mentre parla davanti al Papa, il suo cuore è ancora in Sudan: «A El-Fashir, le persone vivono sotto assedio da più di due anni, senza cibo, medicine, speranza. Le madri danno ai propri figli cibo per animali pur di tenerli in vita. Chi non muore per i proiettili, muore lentamente di fame. Vi prego, pregate perché la pace torni nel mio Paese».
Intanto si proclama l’Appello di Pace 2025, frutto dell’incontro: ciascun leader lo firma, accendendo la candela e deponendola in un candelabro. Significativo che esponenti dell’ebraismo e dell’islam lo facciano insieme, ai piedi dell’Arco di Tito, costruito duemila anni fa per celebrare un’altra guerra in Palestina. Si legge nell’Appello: «La pratica della forza calpesta il diritto internazionale, indebolisce le istituzioni nate all’indomani della Seconda Guerra Mondiale per liberare il mondo definitivamente dal flagello della guerra. Promuove violenza e aggressività, giustifica i conflitti tra i popoli e crea spaesamento e paura nella società. Le guerre illudono che il futuro migliore è contro l’altro e senza l’altro». Le religioni, in passato attraversate anche dal fanatismo e dalle strumentalizzazioni le une contro le altre, sanno: «che non c’è mai futuro senza l’altro. Nessuna guerra è santa, solo la pace è santa!».



