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Chi era Bori Pahor
Boris Pahor nasce a Trieste nel 1913, allora porto principale dell’Impero austro-ungarico. A sette anni assiste all’incendio della Casa della cultura slovena di Trieste. Nel 1940 viene arruolato nell’esercito italiano e mandato sul fronte, in Libia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre torna a Trieste, ormai sotto occupazione tedesca. Nel 1944 viene catturato dai nazisti e internato in vari campi di concentramento, in Francia e Germania. Finita la guerra diventa insegnante e comincia a scrivere . Nel 1955 esce il romanzo Città nel golfo dove descrive l’arruolamento nelle truppe partigiane slovene che operavano nella Venezia Giulia, e con il quale diventa celebre in Slovenia. Nel 1975 assieme all’amico triestino Alojz Rebula, pubblica il libro-intervista Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca, nel quale Kocbek condanna il massacro di 12 mila prigionieri di guerra, appartenenti alla milizia anticomunista slovena, perpetrato dal regime comunista jugoslavo nel maggio del ’45. Il libro provoca durissime reazioni da parte del Governo jugoslavo. Le opere di Pahor vengono proibite nella Repubblica socialista di Slovenia e gli viene vietato l’ingresso in Jugoslavia. Nel 1992 è insignito del Premio Preseren, la maggiore onorificenza slovena in campo culturale. Solo nel 1997v viene pubblicato per la prima volta in Italia Necropoli, l’opera più importante di Pahor, scritto nel 1967. È il racconto dei mesi di prigionia trascorsi dallo scrittore nel campo di concentramento di Natzweiler, dove fu mandato dalla Gestapo, perché appartenente alla Resistenza slovena. Nel 2007 è insignito della Legion d’onore, la massima onoreficenza francese
La nostra intervista del 2008
Di Carlo Faricciotti
All’improvviso «tutto sembra capovolto: come se i tram avessero invertito la direzione e i crocicchi fossero stati spostati» e la lingua dei padri, quella parlata da secoli, dev’essere abbandonata, a favore di un’altra, da imparare a ogni costo, a forza di umiliazioni e violenze. Dopo l’autunno 1918, con la fine della Prima guerra mondiale e con la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, la Venezia Giulia è annessa al Regno d’Italia e comincia l’uso forzato dell’italiano al posto dello sloveno. Una storia poco conosciuta fino a poco tempo fa e culminata, il 19 luglio 1920, con l’incendio, da parte delle squadracce fasciste, della Casa della cultura slovena di Trieste. Un evento, quel rogo, raccontato attraverso gli occhi di un gruppo di bambini da Boris Pahor, 95 anni, in Il rogo nel porto, uno dei racconti contenuti nella raccolta, dallo stesso titolo, pubblicata da Zandonai editore. Quello, racconta Pahor a Famiglia Cristiana, «fu il periodo più terribile per me, anche più del fascismo, sono fatti che hanno segnato la mia giovinezza. L’Italia voleva costringerci a diventare italiani, escludere gli sloveni dalle loro terre. Ci furono migliaia di persone incarcerate e due grandi processi, nel 1930 e nel 1941, finiti anche con delle condanne a morte, ma di tutto questo in Italia si è sempre saputo e parlato poco, si è preferito parlare delle foibe, di Tito, dell’esodo degli italiani dall’Istria, senza ricordare che furono anche una conseguenza delle tragedie che narro». In un altro racconto della raccolta, Il naufragio, ambientato nell’autunno 1924, da cui è tratta la citazione iniziale, il padre del piccolo protagonista deve scegliere tra rassegnarsi o non rassegnarsi, e decide di lottare, anche a costo di insegnare lui stesso al figlio quella lingua italiana diventata obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado. «Anche questo, come gli altri, è un racconto autobiografico, sono tutti fatti che ho vissuto di persona. Mio padre era fotografo alla Gendarmeria imperiale e dopo la fine della guerra, quando il Regno d’Italia conquistò quelle terre che considerava italiane, territori da salvare dallo straniero, mentre solo Trieste aveva una maggioranza italiana, gli fu imposto di trasferirsi in Sicilia, essendo lui un funzionario statale. Ma preferì andare in pensione, con una pensione minima, pur di non cedere, e si mise a studiare l’italiano con me, che a scuola ero umiliato e deriso dal maestro e dai compagni, e per me era peggio che veder bruciare la Casa della cultura». Il vano rifiuto dell’omologazione Il padre di Boris, come tanti altri sloveni riuniti in un’organizzazione clandestina capillare, non si rassegnò all’omologazione forzata, ma chi resistette ebbe pochi alleati: «I vescovi di Trieste e Gorizia cercarono di opporsi, ma furono rimossi. Un altro religioso se ne andò disgustato, dicendo: sono stato nelle colonie, ma almeno lì i popoli possono parlare la loro lingua, anche se oppressi, qui nemmeno questo è concesso». Il clima di quegli anni, inasprito dal fascismo («per Mussolini tutto quanto era nel Regno d’Italia doveva diventare italiano»), è dipinto in un altro racconto, Fiori per un lebbroso, con colori disperati: dappertutto «una tristezza infinita e folle», Gorizia «era una città morta, un ammasso di rovine» e l’Isonzo scorreva «languido e triste». In Mio cugino Ciril, ambientato nel 1938, Pahor scrive: «Se non dimentichi la tua lingua, ti aspettano olio di ricino e incendi. Se non conosci quella altrui, ti deridono». In tutto questo, la passione per la letteratura, nata nel seminario di Capodistria: «Lì, ci insegnarono cos’era il fascismo, cosa ti costringeva a fare. Lì, ritrovai la mia identità e mi misi a leggere tutto quello che trovavo in sloveno, e decisi di mettere sulla carta le mie esperienze». E oggi «vedo un futuro molto oscuro: di natura sono ottimista e contento di esserlo, ma vedo pochi appigli valevoli cui appoggiarsi, per opporsi a un capitalismo mondiale solo economico, senza spirito umanistico. Il mondo è rimasto infettato dai totalitarismi e ci vorrà ancora tempo perché guarisca, questa è la mia speranza».



