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Era un uomo di un’altra era Nicola Pietrangeli, nel tennis e fuori, e non faceva niente per nasconderlo. Aveva presenziato senza mai mancare in tribuna per quasi mezzo secolo agli eventi più importanti dell’era open, ma era rimasto un giocatore dell’epoca precedente: restava uomo dei gesti bianchi, della terra rossa, dei telai di legno, ma anche del tennis dei dilettanti in cui non giravano soldi alla luce del sole, ma cui si accedeva solo se nati con la camicia. Raccontò a Domenico Procacci, per il documentario Una squadra, di essere andato a vedere il discobolo Adolfo Consolini all’Olimpiade Roma 1960 con in tasca la lettera di un contratto da professionista e di essere tornato a casa per dire al padre, che premeva: «Scusa non ce la faccio».


Per questo non ha capito, né avrebbe potuto i calcoli che hanno fatto Sinner e Musetti, anche perché forse non aveva mai accettato che il tennis fosse molto cambiato.
C’entrava, è vero, in quella sua fedeltà al dilettantismo, il fatto che il professionismo dell’epoca avrebbe significato la rinuncia per sempre alla Davis, allora utile a passare alla storia più di ora, e ai tornei del Grande Slam, ma c’entrava anche, come ammise in Nicola VS Pietrangeli, quell’altra faccenda che anche contrattando 100 dollari a partita, a conti fatti: «Per guadagnare soldi si sarebbe dovuto giocare quasi ogni giorno e un gran lavoratore come me non ha accettato». E sorrideva mentre lo diceva, sornione e autoironico, dando implicitamente ragione al suo amico Gianni Clerici, che nel giorno del trionfo contro Rod Laver agli Internazionali d’Italia del 1961 celebrandone il successo attaccava così: «Nicola si lamenta con me, suo agiografo, perché scrivo che è grasso: tutto il bene del mondo gli dico, ma poi aggiungo che è un pigraccio abbondante». Il tennis pro di oggi, non permetterebbe più: copre d’oro è vero, ma chiede una costanza imparagonabile, come imparagonabili, sono le velocità, l’atletismo.
Nel “vs” che significa “contro” del titolo c’è forse, più che in tutto il resto, l’essenza di un uomo che un po’ si compiaceva dell’essere “contro” il verso del legno, di non assecondarlo. Solo il padre finì per assecondare quando lo guidò, dolcemente ma con fermezza, verso il tennis, sport elitario, sottraendolo all’amato calcio. Raccontava dopo che da giocatore aveva allenato le gambe continuando a giocare a pallone, di nascosto dalla figura paterna: si contrapponeva in questo ad Adriano Panatta, con cui ebbe un rapporto controverso, un odio/amore turbolento, originato nella sconfitta mai digerita subita da Pietrangeli agli Assoluti del 1970: segnò il sorpasso di una nuova generazione.


Di Adriano Panatta Pietrangeli diceva: «Era un talento strepitoso, più di me, ma meno forte di me», (e ne criticava le “gambette”) e poi metteva sul piatto i numeri dei risultati, in modo che si vedesse che aveva vinto più dell’Adriano nazionale, suo giocatore in Cile quando Pietrangeli fu capitano non giocatore di quella Davis vinta (Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli) a Santiago 1976, in cui seppe guidare al successo una squadra disarmonica e lacerata che però è ancora leggenda, e leggenda divertente, adesso che Panatta e Bertolucci commentano in Tv, e autorevole se è vero che Barazzutti ha contribuito all’ultimo salto di crescita di Lorenzo Musetti ora saldamente top ten. Quella vittoria fu leggendaria, ma la partecipazione controversa: c’era aria di boicottaggio contro il Cile di Pinochet, Pietrangeli era favorevole a giocare, dalla politica c’erano spinte a non farlo. Raccontava di una intervista un po’ trappola in cui lo avevano affiancato agli Intillimani, popolari e contrari alla partecipazione. Sulla maglietta rossa - che aveva voluto Panatta senza dire troppo chiaramente quanto fosse scaramanzia perché in quel colore, lo stesso delle madri dei desaparecidos, aveva vinto Parigi - e quanto sberleffo al regime cileno, Pierangeli sosteneva di non averlo saputo, di non essersi mai occupato di politica. Glissando diceva: potrei essere monarchico, la regina d’Inghilterra è una donna bellissima.
Nell’ultimo periodo Pietrangeli si era fatto la fama del “rosicone”, perché, pur ammettendo il fatto che Jannik Sinner stesse ormai bruciando tutti i record, un po’ forse giocava a mettersi in competizione con lui sul piano della storia, lasciando intendere tra le righe che gli dispiacesse un poco nel fondo essere scavalcato come numero uno del tennis italiano, quanto ne soffrisse davvero e quanto gigioneggiasse un po’, giocando a “fare finta che”, perché quello ormai si aspettavano da Nicola Pietrangeli ogni volta che lo stuzzicavano, non è dato di sapere fino in fondo. Vero era che Pietrangeli la storia del tennis, nella persona dell’australiano Rod Laver, unico ad avere vinto più volte il grande Slam, da dilettante e da professionista, l’aveva battuta davvero sul campo in finale a Roma nel 1961. È stato fin qui l’unico tennista italiano entrato nella Hall of fame del tennis mondiale, l’altro era Gianni Clerici, ma per i meriti del tennis raccontato.
Era nato a Tunisi, da padre abruzzese (un Paperon de’ Paperoni lo definiva) e madre russa, l'11 settembre del 1933, dove il padre aveva costruito un campo da tennis. Arrivato in Italia nel 1946 parlava solo francese e russo, cosa che gli conferiva un’aria snob con cui ha giocato tutta la vita, pur avendo perso la "r” francese. Per una lunghissima stagione era stato, anche in doppio in coppia con Sirola, il miglior tennista della storia del tennis italiano almeno fino a quando non sono arrivati i ragazzi terribili di adesso a bruciare tutti i primati. Primatista mondiale in Coppa Davis per partite giocate (164), incontri vinti in singolare (78-32) e in doppio (42-12) e primo italiano a vincere un torneo dello Slam, Parigi 1959 e 1960, Nicola Pietrangeli faceva notizia, per il suo rovescio, per la sua eleganza, per i suoi amori, anche se diceva sempre che la fama da playboy gliela incollavano i rotocalchi esagerando un po’: «Ho avuto solo quattro donne importanti: Susanna (la madre dei suoi tre figli), Lorenza, Licia (Colò la sua storia più celebre) e Paola. E tutte e quattro mi hanno lasciato…». Della sua amica Virna Lisi diceva: «Ma scherziamo? C’era Pesci (il marito) che non solo era grande e grosso e mi avrebbe menato, ma che è stato uno dei miei veri amici, mai avrei osato».


Alle finals di un anno fa a Torino c’era, la Davis dello scorso anno l’ha alzata con la squadra, appena prima se n’era andata Lea Pericoli, amica di una vita, ma nel luglio scorso Pietrangeli aveva perso il figlio Giorgio, 59 anni, il più piccolo: uno strappo contro natura. Forse è stato l’inizio della fine.
La camera ardente non poteva che essere al Foro Italico, il luogo simbolo del tennis italiano, dove avrebbe voluto l’ultimo saluto. Non per caso c’è un campo a lui intitolato in vita, cosa che solo alle leggende può capitare.







