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Non era un gioco, non era goliardia. Era una gigantesca macchina di umiliazione. Per vent’anni, dal 2005, Picha.eu ha raccolto e diffuso senza consenso foto di donne comuni e figure pubbliche, trasformandole in merce per un pubblico maschile assetato di dominio. Donne fotografate di nascosto, ex partner “vendicate”, leader politiche ridotte a caricature pornografiche. Tutto sotto gli occhi di milioni di utenti.
La piattaforma non era un piccolo covo nascosto nel dark web: era un sito conosciuto, frequentato, “di successo”. Soltanto a luglio 2025 ha totalizzato 12,8 milioni di visualizzazioni, con una crescita del 16% rispetto al mese precedente. Numeri da gigante, che raccontano una voragine culturale prima ancora che criminale.
La chiusura è arrivata solo ora, dopo anni di denunce e segnalazioni, ma i danni restano: materiale diffuso ovunque, ferite profonde nelle vite di centinaia di migliaia di donne.
Il precedente del gruppo “MIA MOGLIE”
Il caso Picha.eu non è isolato. Pochi mesi fa aveva fatto scalpore il gruppo Facebook “MIA MOGLIE”, dove 32mila iscritti condividevano e commentavano foto private delle proprie partner, spesso all’insaputa di queste. Un gigantesco “bar virtuale” dove il corpo femminile diventava oggetto di derisione, scambio, pornografia non consensuale.
Forme diverse, stessa logica: ridurre la donna a “cosa propria”, negarle dignità e libertà.
La fatica della Polizia Postale
Chiudere un sito o un gruppo non significa risolvere il problema. Lo sanno bene gli investigatori della Polizia Postale, che da anni denunciano una sproporzione enorme tra la mole del fenomeno e le risorse disponibili. “Chiudiamo una piattaforma e ne nascono tre”, spiegano. La velocità con cui il web rigenera spazi di violenza supera di gran lunga la capacità di repressione.
Per questo accanto alle indagini e alle pene servono strumenti normativi più incisivi, cooperazione internazionale e soprattutto un cambiamento culturale profondo.


Dottoressa Stefania Bartoccetti, da fondatrice di Telefono Donna Italia cosa ci dice l’esplosione del caso Picha.eu?
«Ci dice che non parliamo di episodi marginali. Picha.eu è stato attivo per vent’anni, con milioni di utenti. È la prova che la violenza digitale non è una deviazione di pochi malati, ma una realtà diffusa e radicata e l'anticamera del matrattamento, di qualunque tipo, da quello psicologico ed economico a fisico. È l’ennesima conferma di quanto la misoginia si sia trasferita e potenziata nello spazio online».
Lei lo definisce “l’anticamera del maltrattamento”. Perché?
Perché dietro quei commenti e quelle immagini c’è lo stesso schema della violenza domestica o sessuale: ridurre la donna a oggetto, privarla di dignità, negarle il diritto di esistere come persona autonoma. Non è pornografia, è abuso. È la costruzione di una cultura che prepara e legittima il maltrattamento.
Qual è il profilo di questi uomini?
«Sono uomini disperati, frustrati, che nell’anonimato trovano l’unico spazio di affermazione possibile. Ma attenzione: non sono quattro gatti. Parliamo di decine di migliaia di persone, una vera “tribù” che condivide odio e rancore. È un fenomeno di massa, non una sottocultura isolata. Ecco perché è pericolosissimo: chi scrive certe cose online dimostra di non avere rispetto per le donne e può diventare anche autore di violenze nella vita reale».
Alcuni parlano di goliardia, di scherzo tra maschi. Lei non è d’accordo.
«No, non è una goliardata. È una cloaca dove si vomita frustrazione e odio. È un circolo di uomini sconfitti che non sanno relazionarsi con una donna vera, che non reggerebbero mai un confronto. È un modo per riaffermare un potere maschile che non c’è più, che la società non riconosce più. Quindi sì, è l’anticamera della violenza».
Il caso del gruppo “MIA MOGLIE” ha mostrato una misoginia diffusa anche nella vita quotidiana. Cosa ci dice questo episodio?
«Ci dice che la violenza digitale non vive solo nel dark web, ma nelle case, nei salotti, nei bar virtuali. Migliaia di uomini hanno usato le immagini delle loro compagne come trofei. Questo significa non solo non rispettare le donne, ma non rispettare nemmeno se stessi, le proprie relazioni, la propria famiglia. È il segno di un degrado culturale profondissimo».
E la Polizia Postale?
«La Polizia fa quello che può, ma è evidente che non basta. Questi siti devono essere monitorati con continuità e, soprattutto, i responsabili devono essere smascherati. Io voglio sapere chi sono, che lavoro fanno, dove vivono. Perché chi è capace di umiliare così le donne in rete è un soggetto pericoloso, che può agire anche fuori dal web. Non possiamo lasciarli nell’ombra».
Molti dicono: “Se pubblichi certe foto, te la sei cercata”...
«È il meccanismo della vittimizzazione secondaria. È lo stesso discorso che si faceva un tempo con le minigonne: “Se vai in discoteca vestita così, ti meriti una molestia”. No. La responsabilità è sempre di chi abusa, non di chi si mostra. Le donne non devono essere costrette a fare un passo indietro, non devono vivere la rete con paura. Se la conseguenza è l’autocensura, significa che la violenza ha vinto due volte».
Cosa serve oltre a una giustizia che ascolta tutte e prende in carico le denucie e dove ci siano gli etremi commina anche pene?
«Serve cultura. Serve educare i ragazzi a un uso responsabile della rete, al rispetto, al consenso. Serve un piano nazionale contro la violenza digitale, risorse adeguate alla Polizia Postale, e una maggiore responsabilità delle piattaforme. Non possiamo più accettare che i social siano zone franche».
Negli ultimi casi, spesso sono state attiviste e influencer a smascherare questi gruppi. Quanto è importante il loro ruolo?
«È fondamentale, perché l’attivismo dal basso porta alla luce realtà che altrimenti resterebbero sommerse. Ma non può bastare. Le istituzioni devono assumersi la loro parte: non possiamo continuare ad affidarci solo al coraggio delle donne che denunciano. Servono leggi, controlli, sanzioni efficaci».
Il rischio è che questi spazi diventino fucine di violenza più concreta.
«Esatto. Quegli uomini che passano ore a insultare e a ridicolizzare le donne online sono individui pericolosi, perché la violenza verbale e simbolica può facilmente tradursi in violenza reale. Per questo vanno identificati e fermati. Non solo puniti, ma smascherati. Perché la loro forza è l’anonimato: toglierglielo significa togliergli potere».
In sintesi, dottoressa, cosa ci insegna questa vicenda?
«Che non basta chiudere un sito. Bisogna cambiare la cultura. Bisogna dire con chiarezza che umiliare una donna, anche “solo” con un commento online, non è uno scherzo, ma violenza. E che la dignità femminile non si negozia, mai».
Un’urgenza che riguarda tutti
«La chiusura di Picha.eu non è un traguardo, ma un punto di partenza. Altri siti nasceranno, altre chat si moltiplicheranno. Senza un cambiamento radicale, continueremo a rincorrere.
Non è solo questione di pene, ma di mentalità. O cambiamo insieme, uomini e donne, genitori, scuole, istituzioni, o continueremo a pagare il prezzo di questa violenza. La rete è un luogo di vita, e deve diventare anche un luogo di rispetto».



